venerdì 12 dicembre 2008

Barolo Cappellano Otin Fiorin Rupestris 1998


Inorridiranno i “barolisti dell’Enolaboratorio”…ma stavolta faccio coming out: sono rimasto colpito dalla gradevolezza tuttifrutti del 1998. Innanzitutto una splendida veste color granato screziata da nobili trasparenze. Poi una ricca ciliegia dal nitore esemplare, turgida e matura allo stesso tempo, direi perfino laccata…ed infine bacche di more e lampone avvolte da una misurata nuvola di canfora. Insomma un naso dominato da eleganti(!) timbri fruttati, quasi sfacciato, assai lontano dalle austerità del tradizionale scrigno olfattivo nebbiolesco; qui, senza bisogno di alcuna segreta combinazione, si concedeva alle nostre narici con disarmante facilità ed immediatezza senza la benché minima forma di corteggiamento preliminare. In bocca il tannino soffice e dalla trama fitta e vellutata accarezzava con garbo il palato rendendo estremamente rilassata la beva senza perdere in agilità e in tensione grazie ad una sostenuta acidità.
Non aveva i canini affilati e graffianti di un mordace Barolo, made in Serralunga, ma piuttosto le movenze sinuose e femminee di un La Morra ed è forse è la testimonianza più autentica di quanto sia poco attendibile la tradizione orale langarola, assai lontana dalla puntuale e precisa classificazione dei crus di Borgogna (e non me ne vogliano i sacri testi…). L’atmosfera natalizia ha impedito che venisse lanciato il guanto di sfida per difendere l’onore del 1998, accusato dai “barolisti delusi” di vestire il suo profilo olfattivo di una frutta fin troppo dolce, stucchevole…se non cotta! Ho sentito gridare quasi al sacrilegio olfattivo per un Barolo che nello stile, duro e puro, di Cappellano avrebbe dovuto essere sicuramente più cattivo…
Stavolta manifesto il mio aperto dissenso e voto in modo palese per questo Barolo 1998 sicuramente sui generis, easy se vogliamo, ma estremamente godibile nella sua intima semplicità e che ho apprezzato per la sua naturalezza intuitiva, non cerebrale, senza quei rompicapi olfattivi di cui tanto ci piace(ed anche a me, beninteso…)discutere nelle nostre singolar tenzoni all’Enolaboratorio.
Poi un ringraziamento a Michela per l’inaspettato cadeaux natalizio che spero possa contribuire a risolvere i mille interrogativi che abitualmente ci poniamo e che non trovano ancora risposta.In ultimo, un disinteressato spot pubblicitario: stato influenzale incipiente, raffreddore incattivito da alcuni giorni che stenta ad esaurirsi nonostante le terapie a base di medicine convenzionali…Un sorso di delizioso e corroborante Barolo Chinato restituisce alla vita! Da comprare a casse…Chi beve Barolo chinato Cappellano campa cent’anni! Meditate gente, meditate…

venerdì 12 settembre 2008

Degustazione “napoletana” tra amici.

Di Luigi Metropoli (su gentile concessione)

Extra Brut Riserva Stocker 2000
Soave Classico Pieropan ‘97
Weiss Terlaner Stoker 2006
Blaterle Eberlehof 2006
Castel del Monte Rivera ‘87
Bardolino Bertani ‘94
Hofstatter Baluburgunder s.a.
Lagrein Gries ‘93
Rosso del Carso Castelvecchio ‘91
Malvasia di Bosa “Licoro” Zarrelli 2004


Divertirsi degustando e spiando le etichette solo dopo aver immaginato le più improbabili denominazioni e i più improbabili vitigni.

Nella mia settimana “meridionale” spunta la degustazione più assurda degli ultimi tempi. Fabio aveva scommesso metà della propria cantina a chi avesse indovinato il Blaterle, vitigno che fino a ieri sera non solo mi era ignoto all’assaggio, ma ne ignoravo persino l’esistenza. Ovviamente su 6 partecipanti alla bizzarra degustazione nessuno si è avvicinato. Io pensavo al sylvaner, ma evidentemente ne era un parente più o meno lontano.
L’idea era quella di verificare la tenuta di alcune bottiglie d’antan non del tutto adatte all’invecchiamento. In mezzo, qualche sorpresa, come lo splendido extra brut riserva di Stocker 2000, 60 mesi sui lieviti, il Weiss Terlaner dello stesso produttore e appunto il carneade di turno, il Blaterle.
L’Extra Brut, paglierino vivo al colore, ha un naso estremamente complesso, molto al di là dello stancante sentore lievitoso, e bocca molto vivace, fresca, pulita, lunga. Io, che non amo particolarmente le bollicine, sono capitolato sotto questa bandiera altoatesina.
Poi si parte con le bottiglie coperte.
Il primo è un bianco. Colore giallo paglierino intenso con riflessi dorati. Naso piuttosto ridotto e appena burroso. Bocca scomposta e un po’ decaduta. Impossibile risalire al vitigno. Scopriamo le carte: è il Soave classico di Pieropan, della vendemmia 1997.
Per spezzare, si va verso un bianco giovane, il Weiss Terlaner 2006 di Stocker, (da un uva autoctona non meglio specificata), bello limpido in un paglierino tenue. Naso molto fresco che varia tra menta e canfora, con affioramenti di erbe aromatiche. In bocca è un vino piuttosto diretto, teso, bella spalla acida che tiene vivo il sorso. Mi piace particolarmente: si beve con molta facilità, senza tuttavia rinunciare alla complessità. È infatti piuttosto articolato, scalpitante. Niente affatto banale. Poi è la volta dello sconosciuto Blaterle 2006 di Eberlehof. Naso finemente aromatico, tendente più al selvatico che al minerale, che rivela immediatamente il suo carattere nordico per i sentori di erbe di montagna. In bocca è schietto, sottile, con una buona mineralità, piuttosto marcata. Sembra un fratello minore del riesling.
A questo punto si chiude con i bianchi e si parte coi rossi. Tutti rigorosamente con bottiglie coperte.
Il primo, dal colore granato appena un po’ scarico e mediamente compatto, ha un impatto spaesante: per me ci sono note di peperoni verdi che riconducono ai cabernet. Per Tommaso si tratta piuttosto di un sentore vagamente affumicato. Tuttavia il naso è caldo e affascinante. La bocca è appena smagrita, pur dimostrando una buona tenuta e rivelandosi ancora abbastanza vivace. Chiude appena corto. Nessuno ha indovinato la provenienza o meglio: nessuno ci ha provato. Era un Castel del Monte rosso del 1987 della celebre azienda pugliese Rivera.
È la volta di un altro campione d’antan: colore granato abbastanza compatto, naso con accenni di liquirizia, elegante, complesso, abbastanza caldo (non tanto caldo da farlo assomigliare ad un vino del Sud: e infatti i presenti si sono divisi su questo punto). In bocca non riesce del tutto a mantenere le promesse che il naso generosamente aveva concesso (come l’80% dei vini sentiti). Pur mantenendosi integro e tutto sommato piacevole e vivace, perdeva la complessità annunciata, mostrando un palato più esile. Sorpresa generale nel leggere l’etichetta: trattatasi di un Bardolino di Bertani del ’94. Stando così le cose, essendo un vino senza la minima pretesa d’invecchiamento, giù il cappello per la prodigiosa tenuta di 14 anni.
La bottiglia successiva ha un bel colore granato compatto, limpido e trasparente, naso molto preciso, che varia tra accenni minerali (idrocarburi) e un frutto rosso ancora vivo. Poi un corredo complesso di erbe aromatiche, china, rabarbaro. La bocca incredibilmente corrispondente e lunga, senza sbavature, appena un po’ verde. Mi sono fatta un’idea del possibile vino. Per me è un pinot nero. E una volta tanto ci prendo. Trattasi del Blauburgunder di Hoffstatter, senza annata. Molto probabilmente siamo di fronte ad un campione di una ventina d’anni. Di sicuro il vino più performante.
A seguire c’è un vino dal granato compatto, piuttosto fitto. Naso cioccolatoso e di cuoio, con qualche accenno ancora di frutta matura, che assomiglia ad una prugna. È un “vinone” che ha anche un bonus di finezza. Quasi tutti hanno creduto si trattasse di un vino meridionale (molti di noi hanno pensato alla Puglia, per un vino alla cui composizione poteva concorrere anche l’aglianico in percentuale, a donargli quel pizzico di eleganza). In bocca però non ha la complessità che ci si aspettava e la possibilità aglianico svanisce. Tiene comunque bene e si difende, risultando molto bevibile a dispetto della potenza prima mostrata. Ad ogni modo abbiamo sbagliato tutto. Era un vino del Nord, molto a Nord. Un bel Lagrein di Gries del ’93.
L’ultimo vino coperto è forse il più deludente (Mauro ne conviene). Colore in linea con i precedenti, mentre il naso è poco intenso e la bocca un po’ corta, sebbene integra e solida. Trattasi di un Rosso del Carso (forse a base merlot) del ’91 di Castelvecchio.
Dopo il dolce sorseggiamo un po’ di Malvasia di Bosa, il “Licoro” di Zarrelli. Colore giallo intenso che vira verso il dorato, con riflessi di oro antico. Naso estremamente verticale, tutto improntato su sentori agrumati che muovono dal fascino caldo del bergamotto fino all’esotico lime. In bocca c’è quel piacevolissimo gioco a rimpiattino tra la tendenza dolce e un carattere secco, quasi austero e rigoroso. I ritorni odorosi sono in linea con quelli percepiti all’olfatto. Più che sapido è un vino che poggia sostanzialmente sull’acidità, molto spiccata e rinfrescante. Un tripudio di agrumi. Vino nello stesso tempo semplice nella beva per la sua spiccata nota agrumata, ma piuttosto articolato e dotato di gran progressione al palato. Molto distante dai tratti ossidativi che caratterizzano altri campioni della tipologia.

Serata piacevole e spericolata, all’insegna dell’allegria e del disimpegno (una volta tanto…). Quando i discorsi esulavano da argomenti enogastronomici, si parlava del Napoli calcio. Eh, oh!

martedì 9 settembre 2008

Sardegna...non solo Briatore!

Sardinia… una terra sferzata dalle raffiche violente del mistral, il vento più amato dal popolo dei surfisti ma un pò meno dagli altri frequentatori delle splendide spiagge sarde, soprattutto quando si esibisce in tutta la sua esuberante possenza sradicando senza pietà gli ombrelloni che erano stati faticosamente trivellati tra le dune di sabbia. La Gallura è da vent’anni l’immancabile appuntamento delle mie vacanze estive ed ormai, dopo aver saccheggiato svariate enoteche e cantine attentando al patrimonio familiare, posso affermare di aver approfondito con sufficiente ampiezza il lato etilico di un’isola da un pò di tempo identificata purtroppo negli eccessi “vippaioli” del Billionaire, che guadagnano con il loro sfarzo strombazzato le prime pagine degli ameni rotocalchi estivi e non solo…(leggi qui) Lo stile “cafonal chic” del Flavio e dei suoi sbiaditi epigoni non deve infatti far dimenticare la ricchezza di un’isola che ha saputo conservare tradizioni antiche e pregiati giacimenti gastronomici. Dal nostro punto di vista (tranquilli, è sempre un blog che parla di vino…) la Sardegna per ricchezza varietale e livello qualitativo è oggi assai vicina a regioni di più consolidata tradizione vitivinicola, grazie ai molteplici terroirs di straordinaria varietà geologica che assieme alla variabilità pedoclimatica esaltano magnificamente il ricco patrimonio ampelografico. Non è un caso che i terreni di disfacimento granitico della Gallura, dominati dal fresco e secco maestrale, siano diventati il regno del Vermentino, e gli scisti ed i venti del quadrante orientale abbiano fatto dell’Ogliastra la madre del Cannonau, così come le sabbie dell’isola di Sant’Antioco nel Sulcis hanno valorizzato come in nessun’altra parte del mondo il Carignano e la bassa Valle del Tirso ha saputo custodire gelosamente da secoli la flor, misteriosa genitrice della Vernaccia di Oristano, tanto per fare qualche esempio… L’elenco potrebbe continuare ancora per molto ma preferisco fermarmi qui. Un’isola che merita di essere vissuta a 360 gradi, godendosi sia le mille trasparenze del suo mare che la natura incontaminata delle sue più intime zone interne: quelle che scopri solo se ti metti in macchina in compagnia del TomTom dribblando gli agriturismi (poco agri e molto turismi!) dal porceddu facile made in Denmark, ed i paesi-non-paesi, modello Disneyland, della patinata Costa Smeralda… poi, d’improvviso, curva dopo curva, stazzu dopo stazzu, ti ritrovi a tu per tu con l’anima più rude e selvaggia e certamente più autentica della Sardegna, quella che percepisci immediatamente quando metti piede in questa terra e vieni avvolto dai mille profumi della macchia mediterranea arsa dal solleone, ed in un attimo ti senti lontano mille anni luce dalle paillettes di Briatore e della sua corte dei miracoli.
E’ inutile dirvi che in tanti anni di frequentazione etilica della Sardegna tanti sono stati i coup de coeur: dagli arcinoti figli del grande Giacomo Tachis, Turriga & Terre Brune, l’orgoglio dell’enologia sarda, ai vermentini dall’insuperabile rapporto qualità-prezzo come Canayli e Funtanaliras o i fuoriclasse come Capichera, Genesi e Arakena, e ancora la mitica Vernaccia Antico Gregori di Còntini, da pronunciare rigorosamente con l’accento sulla “o”, oppure Josto Miglior il Cannonau di Jerzu. L’elenco anche qui potrebbe essere sterminato ma scelgo di auto-limitarmi ai “vini del cuore” (copyright L.Pignataro) di quest’estate 2008…
Karenzia è un Vermentino Superiore di nome e di fatto…E’ il frutto sapiente delle vigne storiche del Giogantinu con ben quattordici gradi, una vis alcolica che a prima vista potrebbe mettere un pò di soggezione, ma che quando si versa nel bicchiere si offre con un giallo paglia di intensa luminosità e di splendida compattezza, che subito fanno dimenticare l’importante titolo alcolometrico. La macchia mediterranea intrisa di rosmarino e mirto definisce fin dalla prima olfazione i contorni di un naso articolato e complesso; molto espansivo nei profumi, rilascia gradualmente altri forti indizi di appartenenza al terroir gallurese con continui soffi di mineralità salmastra ad arricchire il bagaglio aromatico che si lascia respirare con gratificante soddisfazione… In seconda olfazione sono i riconoscimenti di frutta a polpa bianca e gialla in piena maturazione a dominare la scena. In bocca si diffonde senza incertezze sul palato grazie ad un ingresso possente e disinvolto con la rotondità della glicerina e lo spessore della ricchezza d’estratti, ben sostenute dalla sapidità che con il passare dei secondi si tinge di suggestioni saline amplificate da calde e possenti sferzate alcoliche. Nell’allungo finale in evidenza gli spunti di frutta esotica avvolti da note mellite. A tavola si sposa con l’aragosta di Castelsardo, per un matrimonio di territorio dove trionfano sia l’amore che la convenienza, a “sorpresa” si trova a suo agio anche su succulenti salsicce pepate cucinate alla brace. Un bianco “bidimensionale” nell’abbinamento che conferma quanto sia semplicistica la trita e ritrita e forse un pò troppo manichea equazione dei bianchi sul pesce e delle carni con i rossi. Provare per credere!
Sarà stato il felice abbinamento con delle costate a cardìga (alla griglia) di bovino di Calangianus, ma per il Kanai, Carignano del Sulcis riserva 2003 della Sardus Pater, è stato un trionfo per come si lasciava bere in assoluta scioltezza, incuriosito ho voluto riprovarlo a distanza di qualche giorno stavolta in formato magnum e con “su sirbone” alias il cinghiale, la classica selvaggina da pelo della Sardegna, cotto in umido con olive nere…altro convincente successo.Un vino di grande temperamento che il rovente millesimo non è riuscito ad esasperare, conservando intatta la solare e calda anima mediterranea senza sbavature ed eccessi, il marker inconfondile che si accompagna al Carignano quando viene allevato nelle zone più vocate: dal Languedoc-Roussillon francese ed alla Catalogna iberica fino alla Tunisia passando per l’estremo lembo di Sud-Ovest della Sardegna, il Sulcis, e trovando nell’isola di Sant’Antioco un’enclave in cui vigne ultrasecolari ad alberello regalano il loro frutto migliore crescendo ad un passo dal mare e su piede franco, non avendo mai conosciuto, beate loro, la fillossera grazie alla granulometria di un terreno composto da sabbia bianca minutissima, talmente fine da rendere difficile la costruzione delle gallerie sotterranee con le quali il famigerato afide ama spostarsi da un ceppo all’altro. Nel bicchiere conquista per la sontuosità della beva, ma ancor di più per la capacità di ravvivarsi ad ogni sorso, senza stancare il palato nonostante la sua esuberante e ricca materia. Si concede al naso con generosità grazie ad una incalzante successione di viola passa e di confettura di prugna ancora turgida e vitale, poi sprigiona ciliegie sotto spirito, note speziate di cannella e vaniglia ed in ultimo di una ventata di cuoio e cioccolato. Una trama olfattiva assai intricata dove tutti i profumi, avvolti gli uni agli altri, sono immersi in un elegante fondo balsamico. Potente e caldo appena trova la bocca, svela il suo ampio corpo definito da un tannino dal passo felpato che accarezza con discrezione le papille gustative. Nel lungo finale una marcata sapidità tempera la dolcezza dei rimandi fruttati che affiorano in retrolfazione. Un’ulteriore conferma di come il Carignano appartenga, senza ombra di dubbio, al ristretto novero dei grandi vitigni a bacca rossa del Mediterraneo.

mercoledì 25 giugno 2008

Vacanze romane...Doppia verticale dell’azienda Castello dei Rampolla con Sammarco e d'Alceo


Vacanze Romane...l'occasione era ghiotta, un grande evento targato Bibenda: i cult-wine di Castello dei Rampolla, Sammarco e d'Alceo in una doppia verticale che attraversa alcuni tra i millesimi più rappresentativi di questa storica e prestigiosa azienda di Panzano di Greve in Chianti. I vini, il parterre de roi ( i principi Luca e Maurizia di Napoli Rampolla e l'enologo Giacomo Tachis con Paolo Lauciani a guidare la degustazione) e la simpatica compagnia (Mauro Erro e Luigi Cristiano) mi convincono a sfidare il torrido caldo di questi giorni... L'opportunità, poi, di scambiare un pò di piacevoli chiacchiere con qualche vecchio amico "romano" è la classica ciliegina sulla torta! A proposito, visto che la trasferta nella capitale era giustificata anche da "motivi di lavoro" subito un' anticipazione: nei prossimi mesi ci sarà una disfida a colpi di zuppa di pesce (scuola puteolan-partenopea vs. scuola laziale) in collaborazione con l'amica e "collega" Maria Cristina Ciaffi, Delegata Ais Civitavecchia. Prima però di lasciare lo spazio al puntuale resoconto di Mauro, due parole due, su questa storica doppia verticale. Diciasette vini sono un' impresa decisamente ardua ma il ritmo della degustazione scandito dagli interventi calibrati dei relatori con le incursioni di Tachis il Grande (giù il cappello!) consente di recuperare agevolmente la concentrazione e prestare la giusta e necessaria attenzione, meno male…Ma veniamo ai vini. A farmi preferire la batteria siglata Sammarco (per un'incollatura..n.d.a.) sono gli umori terragni della toscanità più classica: humus, sottobosco, funghi e tabacco che si intrecciano uno nell'altro bicchiere dopo bicchiere. Su tutti svetta, a mio modesto avviso, il superbo 1985 che si presenta in grande spolvero con una veste cromatica di un intenso granato, illuminata da nobili trasparenze e con un naso che mi colpisce per il frutto ancora integro, direi quasi croccante, scolpito da eleganti ed incessanti effluvi balsamici; in bocca l’incedere della parabola gustativa, deciso e fiero ad ogni passo è sospinto da una sorprendente freschezza che si rinnova in continuazione, il raffinato tannino accompagna in lunghezza ed in profondità tutto l’assaggio con un' impronta garbata e carezzevole. Un vero cavallo di razza che galopperà ancora per tanti anni! Per la batteria dei d'Alceo il timbro è quello della “potenza in un guanto di velluto” anche se ho apprezzato il tono più sommesso del 1998 con una silhouette sicuramente più agile e snella ma dalla lunga e sottile persistenza. Mi fermo qui...basta così! Adesso è il turno della maratona “etilica” di Mauro Erro.

Il territorio:

L’azienda di Castello dei Rampolla è ubicata nella splendida Conca d’Oro, un anfiteatro naturale protetta a nord dalla collina di Santa Lucia, che si apre a sud del paese di Panzano nel comune di Greve in Chianti, nel cuore della zona del Chianti Classico. La natura dei terreni della Conca d’Oro, e più propriamente dei vigneti della azienda, è abbastanza eterogenea, ma vede la predominanza di argilla a valle, che permette la trasmissione di sostanza minerali (le note minerali sono una caratteristica sempre presente nei vini provenienti da questo “Grand Cru”), e man mano salendo in altitudine, terreni limosi e Galestro: quest’ultimo favorisce il perfetto drenaggio e la possibilità di un’ottima penetrazione delle radici delle piante.

L’azienda:

L’azienda nasce grazie all’opera di Alceo di Napoli, intorno agli anni ’60. Innamorato dei vini bordolesi, decise di portare le barbatelle nella sua tenuta (quelle del Cabernet provengono da Villa Capezzana, che a sua volta le aveva prese da Chateau Lafite. Verranno innestate su viti di Malvasia, Trebbiano e Ciliegiolo): fu egli il primo con la collaborazione di Giacomo Tachis, l’enologo, a portare insieme gli Antinori il Cabernet Sauvignon in Toscana e l’unico ad introdurre, in gran segreto perché all’epoca vietato, il Petit Verdot. Dopo la morte di Alceo Di Napoli, saranno i figli dal 1994 a riprendere l’azienda e a produrre il Vigna d’Alceo che verrà commercializzato per la prima volta nell’annata 1996. L’azienda possiede 120 ettari, di cui solo 42 vitati e 28 effettivamente produttivi. Dal 1994, l’azienda è a conduzione biodinamica, per cui si utilizzano solo lieviti indigeni per la fermentazione, non si aggiungono enzimi o prodotti coadiuvanti, l’utilizzo dell’anidride solforosa è ridotta al minimo.

I vini:

Il Sammarco (il cui nome ricorda uno dei figli di Alceo, prematuramente scomparso in un incidente in elicottero) ed il Vigna d’Alceo (oggi più semplicemente d'Alceo) sono i vini di punta dell’azienda. Il primo era nato come uvaggio di Cabernet Sauvignon e Sangiovese, anche se mano a mano negli anni la percentuale di Sangiovese è stata ridotta fino ad un 5% attuale, a cui si è aggiunto un’altrettanta percentuale di Merlot. Il Secondo, invece, è un taglio di Cabernet Sauvignon in prevalenza con l’aggiunta di una percentuale (intorno al 20%) di Petit Verdot. Le vigne sono poste tra i 250 e i 300 metri sul livello del mare, hanno un’età media che supera i trent’anni (anche se si sta provvedendo a nuovi innesti) ed una densità per ettaro, per il Sammarco, di 5/6000 ceppi, per l’Alceo, di 10000, oggi ridotti a 8.000, ceppi. La resa, per quest’ultimo, d’uva per pianta, è alquanto significativa: solo 300-500 grammi!

La vinificazione avviene in lamiera smaltata (non inox, in cui, a detta del proprietario Luca di Napoli, i vini rossi non si fermano mai), anche se l’azienda si sta preparando per sostituirli con tini di cemento, un materiale più neutro per preservare la naturalezza del vino. L’affinamento prevede per il Sangiovese botti dalle capacità di 25/30 ettolitri, per il Cabernet Sauvignon, il Petit Verdoit ed il Merlot, barrique di rovere francese di leggera tostatura nuove solo per il 10, 15%.

N.d.a.: La degustazione, tenutasi ieri presso l’Hotel Cavalieri Hilton di Roma a cura di Ais-Bibenda Roma alla presenza dei titolari dell’azienda e dell’enologo Giacomo Tachis, è stata molto affascinante, ma anche molto faticosa (17 vini, non son pochi), quindi mi scuserete per qualche imprecisione. Trattandosi di due vini in verticale, ovviamente, noterete una certa ripetitività dei descrittori organolettici. L’indicazione del colore sarà data solo quando estremamente significativa.

lunedì 2 giugno 2008

Giovin Re di Michele Satta


Verrebbe da dire ”Simposiarchi vicini e lontani giù il cappello, questo qui è un gran vino, punto e a capo! “ Ma andiamo per gradi, partiamo dal colore…
Fin dalla vista colpisce per uno smagliante oro zecchino dai radiosi riflessi che illuminano il cristallo del bicchiere. Straripante è la ricchezza aromatica della finissima trama olfattiva: prima esplodono le note fruttate di albicocca, ananas e pesca gialla; poi è il turno della cannella accompagnata da incenso e miele d’acacia. Intensi e continui sono i profumi che giocano con le nostre narici, nascondendosi uno dietro l’altro: diventa estremamente piacevole immergere il naso nel bicchiere e verificare come il ventaglio aromatico si dispieghi ad ogni olfazione, disegnando una complessità di rara definizione che chiude con un tocco soffuso di crema inglese dal quale emerge con chiara precisione il baccello di vaniglia.
Un corpo estremamente sensuale ed avvolgente, arrotondato da una morbidezza che pervade il palato con un incedere lento e flessuoso sostenuto ad ogni passo da una acidità rimarchevole, che nella dinamica gustativa accompagna il Giovin Re verso l’armonia nonostante l’importante ricchezza in estratti; con il passar del tempo, dopo la deglutizione, dimostra di sapersi vestire anche di sapidità per un interminabile finale di regale eleganza.
Mi lancio, stile “viandante bevitore”, in un abbinamento musicale e mi vien subito da pensare alle evocative atmosfere di Habibi ya nour el di Alabina. Buona danza del ventre…

Tommaso Luongo

sabato 19 aprile 2008

Borgogna: Il Sapore della Terra

Di Tommaso Luongo e Claudio Tenuta

In ogni dove in Borgogna si respira un’atmosfera agreste, profondamente rustica e di rurale semplicità. Vignaioli caparbi ed ostinati che zappano la terra, vigne attempate che non celano le proprie rughe, vini virili dalla scontrosa eleganza e cantine che profumano di mosto dove, ancora, ci si inzacchera le scarpe con la terra battuta… Tutto questo può sembrare forse un pò troppo naif, ma questa è l’anima più verace della Borgogna, che non si nasconde dietro artifizi o alchimie mostrandosi con dignità e fierezza per quello che autenticamente è. Qui la natura esplode, rigogliosa, nelle mille essenze e nei profumi cangianti dei suoi vini, e nel palato che si esalta e si entusiasma ad ogni sorso. I vigneron borgognoni sono prima di tutto dei profondi conoscitori della propria terra, degli agricoltori “artigiani”di poche parole e dai modi piuttosto spicci. Gente schiva, riservata, non adusa alle pubbliche relazioni, “geneticamente” refrattaria ai fasti e alle solennità dei pomposi Chateâu bordolesi. Qui è un altro mondo, si preferisce non ostentare la propria grandezza e far parlare soltanto il vino; spesso però, magari dopo qualche piccolo mugugno che è eredità della loro ancestrale diffidenza, quegli stessi vignaioli sanno accoglierti con genuina e spontanea cordialità. Un frutto turgido e vitale declinato nelle sfumature di ciliegia nera, amarena e lampone è il filo conduttore della nostra degustazione; passando da un comune all’altro della Cote de Nuits, questa nota fruttata, perfino semplice nella sua immediatezza, si impreziosisce degli umori dei singoli terroirs esaltando anche la più insignificante delle differenze pedoclimatiche, facendo di ogni vino un’emozione unica e irripetibile. I vini sono sfuggenti, riflessivi ed emozionali; vini che sanno raccontarti, senza lustrini, gli umori del proprio terroir, ma che chiedono in cambio di essere degustati con assaggi meditati e non frettolosi, e per questo con calma sediamoci e iniziamo il nostro piccolo viaggio nella grande terra di Borgogna in compagnia delle schede di degustazioni a cura del “nostro” Claudio Tenuta.
Nell’accogliente ritrovo di Mauro Erro ed il fratello Roberto entriamo in punta di piedi per approcciarci, non lo nascondo per quanto mi riguarda, con un pizzico di timore reverenziale verso il signore dei vini di Borgogna e non solo. Siamo davanti al Pinot Noir che grazie alla sapiente selezione del trio Mauro-Fabio-Tommaso ci apprestiamo a scoprire con un approccio tecnico ma soprattutto emozionale e soggettivamente libero. La serata parte con grande concentrazione dei 10 fortunati componenti del tavolo rettangolare, i partecipanti dai più smaliziati in tema di Pinot Noir ai meno esperti aspettano che tutti e sei i bicchieri siano pieni, al fine di avere il quadro completo davanti ai propri occhi, al proprio naso e alla propria bocca e poter valutare in uno stato di completo abbandono dei sensi senza nessun tipo di frenesia.

Volnay Aoc 2004 S. Francois -Monnet:
Colore nettamente rubino, abbastanza consistente e di buona limpidezza nonostante non sia filtrato, al primo naso esprime note di riduzione e qualcuno ritiene anche di feccetta, per quanto mi riguarda ho il desiderio di aspettarlo perchè il primo naso mi ha fatto emergere quelle sensazioni olfattive che riscontro in vini prodotti con uve biodinamiche e con tecniche in cantina ridotte al minimo. Dopo 30 minuti di ossigenazione emerge una nota vinosa molto netta in perfetta sintonia col colore rubino che denota la gioventù del prodotto, il naso con la roteazione del bicchiere tende a chiudersi su se stesso e le sensazioni floreali sono ancora troppo in sordina ad esclusione di una nota di lilium, mentre inizia a salire una nota minerale vagamente di gesso. In bocca è meglio definito grazie ad una spiccata sapidità ed a una alcolicità molto calibrata, al gusto emergono piacevoli fragranze di prugna, susina e fragoline di bosco, di media persistenza. Da rilevare che dopo circa due ore la compattezza olfattiva iniziale si è finalmente scissa in sensazioni fragranti di frutta fresca e fiori di campo.
Volnay Aoc Premier Cru 2004 Les Fremiets-Voillot:
Stessa annata ma colore decisamente più orientato al granato, assolutamente vivido; il primo naso mi fa associare questo bicchiere ad un Merlot perchè esprime note vegetali ed erbacee molto nette di geranio metropolitano e radice di liquirizia, i fiori sono presenti ma ancora coperti da questo forte impatto verde (Fabio Cimmino sostiene che dipendente dall’annata 2004 non memorabile e da una probabile vendemmia anticipata). Il secondo naso si evolve verso sensazioni più eleganti di camomilla, finocchio selvatico e dopo più tempo verso note di tabacco e ceralacca. La bevuta è altrettanto elegante con apertura su pungenti sensazioni di pepe verde appena macinato e liquirizia dolce, infine su sensazioni di ciliege e roselline. La persistenza non è particolarmente lunga ma comunque avvolge il palato congradevoli nuances.
Pommard Cru 2004 Roblet Monnet:
Vino rubino di maggiore concentrazione rispetto ai bicchieri precedenti, con discreta consistenza espressa anche da archetti numerosi e lacrime lente sinonimo di buona presenza sia di alcoli che di polialcoli. E’ il vino più chiuso di tutti e nonostante le continue roteazioni del bicchiere non ha voglia di mostrarsi, dopo 20 minuti di ossigenazione emergono le note che secondo la mia convinzione cercavo in un Pinot Noir, cioè: lamponi, cassis, e fiori rossi e note vegetali oltre che un sottofondo minerale di salgemma. In bocca fanno a cazzotti la morbidezza maggiore rispetto ai Volnay ma anche la tannicità molto aggressiva che asciuga completamente il cavo orale. Il vino entra in bocca su note amare, di primo impatto un poco invadenti, di rabarbaro e pepe nero, poi le papille gustative e la salivazione smorzano questa sensazione ed emergono note balsamiche e mentolate e un gusto di piccoli frutti di bosco. Probabilmente anche la tostatura del legno di affinamento ha inciso con i suoi tannini e ci sarà bisogno di più tempo per avere un espressione ottimale di questo vino.
Pommard Aoc 2004 Domaine Sabre:
Colore perfettamente granato con ricordi rubino e qualche accenno aranciato, appena velato e di consistenza uguale agli altri campioni. E’ il più intenso di tutti, metti il naso nel bicchiere e ti trovi un pugno di sensazioni contraddittorie. La serata si “apre” e chi fino a quel momento era stato sulle sue non può esimersi dal dire qualcosa su questo vino che nel bene e nel male catalizza gran parte dei confronti. Tutti al tavolo abbiamo sentito almeno una volta il profumo avvertito al primo naso nel bicchiere ma nessuno riesce a sbilanciarsi, io identifico la sensazione con la cipria mista a note ematiche, ma come detto da qualcuno percepisco anche note di saldatura o plastica appena bruciata, ma non è da escludere, anzi, l’odore di china. Tutto quello che ha diviso al naso in bocca unisce e le sensazioni pungenti ed in parte non piacevoli svaniscono in bocca con un gusto più incentrato su citronella essiccata, marasca, talco, dopo un apertura delicatamente amara minore rispetto l’altro Pommard. Persistenza media.
Gevrey Chambertin Aoc 2004 Fourrier:
Si presenta col un bel vestito rubino con unghia granata, perfettamente limpido e di media consistenza. E’ il secondo vino più chiuso della serata, ma quando decide di aprirsi lo fa su note dolci di zucchero di canna integrale, caramella mou e spezie essiccate, poi gradualmente si evolve su note minerali e eteree. In bocca il tannino è ben levigato e nonostante la spiccata freschezze e sapidità, l’equilibrio è quasi perfetto grazie una decisa presenza di alcolicità e morbidezza. Ad un naso molto elegante fa seguito una bocca altrettanto fine, questo Pinot accarezza delicatamente il cavo orale lasciando una PAI piacevolmente increntrata su sensazioni di giacinto, viola, ribes nero e pietra focaia.
Chambertin Grand Cru 2004 Rossignol Trapet:
Sorpresa di fine serata, maledettamente gradita, un Grand Cru della Cote de Nuits. Rubino molto concentrato con riflessi granati e perfetta limpidezza, ma consistenza più accentuata rispetto ai precedenti calici, lo si percepisce dalla compattezza del liquido nel bicchiere. Apre con un naso su sensazioni vegetali ma meno aggressive del Volnay Premier Cru che si intrecciano a note balsamiche ed eteree di piccoli frutti sotto spirito, poi con l’ossigenazione vengono al naso note di tabacco e cioccolato fondente. In bocca è orgogliosamente armonico perchè fa alternare i sensi tra un vortice di sensazioni dure e morbide senza mai riuscire a farle decifrare fino in fondo, quindi deduco che tutte le componenti sono in perfetta amalgama. Rimane in bocca per un tempo interminabile esprimendo una opulenza ed una corposità non naturalmente da vino del sud ma da aristrocatico vino del nord. In bocca entra e rimane largo e le sensazioni che si alternano vanno dalla carruba, alle bacche di ginepro, dal tabacco caraibico alle more sotto spirito, senza dimenticare una sapidità quasi mediterranea (che strano…).

Nessuno voleva far terminare la serata perchè il calore del vino aveva disinibito i più timidi e portato la discussione sull’amore o l’odio verso i Pinot Noir di Bourgogne che fanno discutere per prezzi fuori mercato e per sensazioni che devono essere aspettate con pazienza, quasi come le opere di Kandisky che con l’uso di colori non sempre perfettamente definiti, con forme a volte tondeggianti ed a volte spigolose, portano a fermarsi e pensare, qualcuno ha anche citato Mondrian, come rappresentante dell’Astrattismo, che nonostante la regolarità e linearità delle sue opere lascia a bocca aperta alla ricerca del profondo significato che vuole esprimere.Qualcuno addirittura sosteneva che il Pinot è come il Jazz ricco di armonie e disarmonie tutte da decifrare. Si può concludere dicendo che è il vino di Bourgogne necessita di empatia per capirne la sua bellezza intrinseca…

lunedì 7 gennaio 2008

Relais Blu Belvedere

Relais Blu Belvedere
Via Roncato, 60 - Massa Lubrense (NA)
Tel +39 081 878 9552 - Fax +39 081 878 9304
www.relaisblu.com
e-mail: info@relaisblu.com


Ci sono posti che non possono non emozionare, non importa quante volte ci sei stato o quanti artisti l’abbiano rappresentato, emozionano a prescindere.
Sono sulla terrazza del Relais Blu a Massa Lubrense e davanti a me, quasi la tocco con mano, c’è Capri con i suoi mitici faraglioni. Alla mia destra in tutta la sua maestosa sinuosità il Vesuvio che digrada dolcemente nel golfo di Napoli. Sono circa le 20,00 e il sole è un disco rosso che lentamente si avvia a sparire all’orizzonte.
Come si fa a non emozionarsi?
Ma forse è meglio se cominciamo dal principio.
Come detto sono quasi le 20.00 quando la gentile signorina alla reception ci accoglie sorridente e ci affida all’esperto responsabile di sala (20 anni da Don Alfonso) che a sua volta ci accompagna in terrazza e, con una certa soddisfazione, sorride alla nostra espressione estasiata. La terrazza, di circa 250/300 metri quadri, ha sulla destra i tavoli ben distanziati (sotto una tettoia di canne) e sulla sinistra una serie di divani e poltrone bianchi rivolti a Capri. Il parapetto del terrazzo è formato da lastre di cristallo, così che nulla possa disturbare l’incanto della veduta. L’arredamento della sala è piuttosto minimal ed il bianco la fa da padrone (solo poche macchie di blu ai tavoli).
Naturalmente prima di avventurarci alla cena vera e propria approfittiamo delle poltrone dove degustiamo uno spumante accompagnato tre assaggi serviti direttamente al cucchiaio (delicatissima minifrittatina di pasta, gamberetto crudo con peperone leggermente agrodolce e filetto di alice delicatamente marinato).
Prenotandola con anticipo è possibile sostituire alla cena una serie di nove assaggini da gustare in poltrona a 35 euro oltre i vini.
Il sole, dopo aver infiammato il golfo, si è ritirato e quindi è giunto per noi il momento di accomodarci al tavolo.
Sono previsti due menù degustazione, o meglio, uno normale a 65 euro (6 portate) ed uno grande ( 8 portate ), a 80 euro (noi li prendiamo entrambi, cioè uno ciascuno). Ad occhio, ordinando alla carta si spende circa il 25% in più.
La lista dei vini (scomoda perché i fogli escono dalla loro sede disperdendosi) è notevole come ampiezza ma forse la Campania avrebbe meritato una maggiore attenzione. I ricarichi in alcuni casi superano il 100% del prezzo di enoteca.
Mise en place senz’altro migliorabile.
Iniziamo con un benvenuto di alici presentate in maniera veramente carina ma che tutto sommato non offre grandi spunti.
Di ben altra levatura invece il primo antipasto: Gamberi di nassa alla mentuccia di San Costanzo con purea di melanzane affumicate, croccante di patate ed olio al basilico, piatto gustoso ed equilibrato, la purea è delicatissima mentre le patate, sfilacciate e ricomposte a bozzolo, regalano sapidità e croccantezza, i gamberi sono semplicemente superlativi. Bel piatto.
Accompagniamo con un Colli di Lapio del 2005, Fiano di Clelia Romano che non tradisce mai.
Si prosegue con calamaretti ripieni di ortaggi Paravisiello con spuma di provolone Auricchio, barbabietola rossa e prezzemolo croccante, altra portata dal sapore delicato e ben armonizzato. Ottima sarà pure la vellutata di patate Agata, totanetti, croccante di porro e pomodori secchi, una serie infinita di sapori e di aromi che s’inseguono e s’incontrano per poi fondersi in un'unica grande suggestione.
I camerieri sono di praticamente invisibili, grande discrezione ma meritano due rilievi: ci danno tranquillamente del tu (nonostante io continui a rivolgermi a loro con il lei) e non presentano i piatti. Ora non è che io desideri una rappresentazione teatrale ma quando ci sono una decina di portate è quasi una necessità rammentare al cliente quelle che si suseguono. Da tali appunti rimane esente il responsabile che dall’alto della sua esperienza tampona questi piccoli disguidi con tempismo e professionalità .
Il primo è davvero degno di nota: mezzo pacchero di Gragnano al pesce di scoglio e peperoni, grande piatto, dove il dolce dei peperoni viene puntualmente contrastato da una nota sapida in un gioco di grandissimo equilibrio. Ottima preparazione! !! Quando poco dopo lo chef (di cui diremo in seguito) si è avvicinato al tavolo la cosa che più lo ha soddisfatto, nei nostri commenti, è stato il richiamo alla perfetta cottura al dente dei paccheri, vera croce degli chef stranieri.
Intanto una luna ruffiana (quasi piena) ha preso possesso del cielo e riflette la sua luce sulle onde del mare che bagnano Capri.
Si sogna!!!
Si prosegue con tavolozza di triglia alle olive taggiasche e pennellate di colori di campo, piatto da applausi a scena aperta, veramente una bontà!! Grande rispetto ed esaltazione della triglia racchiusa in due sottilissime sfoglie di pane croccante (piatto che da solo vale il viaggio).
Intanto la bottiglia è finita e l’unico bicchiere vuoto è il mio ma ordinare un’altra bottiglia di bianco con la portata di carne in arrivo mi sembra sprecato, di ciò si accorge il metre che fa aprire apposta un’altra bottiglia per servirmi un bicchiere. Un’attenzione che debbo dire ho molto apprezzato.
A questo punto è la volta del piatto di carne Trilogia di agnello alle erbe mediterranee e caponata siciliana. La cottura dell’agnello è perfetta ed il piato è ben eseguito ma i sapori di mare sono un’altra cosa. Nel frattempo abbiamo assaltato una bottiglia di Radici del 2000, Taurasi di Mastroberardino servito in adeguati calici.
Il mosaico di formaggi (non particolarmente stagionati) sarà di fondamentale aiuto per dare fondo al rosso Irpino.
Chiudiamo con una granatina al caffè su pan di spagna e panna, un fantastico Ron e cioccolatini ai vari gusti.
Eppure questa valanga di sapori mediterranei è opera di un tedesco di Amburgo, Christoph Bob (esperienze da Ducas a Parigi ed alla Pergola a Roma con Hainz Beck), personaggio veramente simpatico cui vanno i nostri complimenti per le gustose preparazioni che hanno allietato la nostra serata.
Il Relais ha anche una decina di stanze, tutte con veduta mare.
Concludendo, serata da ricordare, sia per la magia del posto sia per la cena che in alcuni passaggi ha raggiunto veramente livelli di eccellenza.
Sorpresa finale: il conto è stato arrotondato per difetto da 434 a 400 euro (eravamo in quattro).

Giuseppe Minniti

Pappacarbone

Pappacarbone
Via Rosario Senatore, 30
Cava Dei Tirreni (SA)
Tel. 089.466441

E' circa l'una del mattino, i partecipanti alla serata, gaudenti e sorridenti, sono andati via ed io mi ritrovo, unitamente alla mia dolce metà, solo con Rocco e la sua brigata. Sono stanchi
ma soddisfatti, hanno colto nei commenti e nei complimenti il successo della loro / nostra serata. Ma c'è nei loro occhi qualcosa di più della semplice soddisfazione per l'aver contribuito in misura determinante e professionale alla riuscita della serata, c'è la gioia di chi opera con passione e sa di aver superato un esame con il massimo dei voti.
Sono quasi emozionati.
E' bello trovar passione in un mondo, quello della ristorazione, che nella maggior parte dei casi è ridotto al rango di offesa al gusto altrui.
Ma partiamo dall'inizio: sono le 19.40 quando arrivo nel locale, rapido sguardo alla sistemazione della sala e doverosa incursione in cucina. Qui tutto è lindo ed in ordine, sembra stiano per chiudere anziché in procinto di cucinare per trenta persone.
"Avvoca' non vi preoccupate noi facciamo tutto al momento". Resto perplesso ma fiducioso.
Finalmente siamo a tavola, arriva l'antipasto: Fiore di zucca con caciotta e telline, tonno naturale, 2 (di numero) frutti di mare al vapore. Eccellente!
La cottura del fiore deve essere stata curata in secondi talmente è viva la freschezza floreale, la caciotta è aerea, le telline ed il loro brodetto conferiscono una discreta nota marina alla preparazione; il tonno semplicemente condito con un delicatissimo olio extravergine rende giustizia all'antica cultura giapponese sulla prelibatezza di questo pesce; la vongola ed il taratufo sono esaltati dalla cottura a vapore.
Se il buongiorno si vede dal mattino……
Buono il prosecco, sbagliati i calici che ne accelerano l'ossidazione.
Per primo gli gnocchi sono delicatissimi e trovano nella perfetta cottura dei cannolicchi e nella crudità dei gamberi delle vette che contribuiscono a rendere oltremodo gradevole la preparazione.
Il secondo primo, coreografico nella presentazione tridimensionale (che cura anche la parte verticale e non solo quella orizzontale), è composto da due paccheri usati a mo' di involucro per un ripieno di bietole. Piatto che trova consistenza nella presenza della mozzarella e sentori estivi nel profumatissimo basilico. Intanto sui primi ci fa compagnia la Falanghina di Mustilli, vino che non ha bisogno di presentazioni.
Altra piccola pausa per una standing ovation a Rocco e la sua allegra brigata, tutti giovani ed entusiasti.
Intanto il servizio si rivela efficiente e discreto, i bicchieri non sono mai vuoti ed i piatti vuoti, invece, non sostano mai sul tavolo. Un bravo a Gaetano (responsabile di sala) è d'obbligo.
Il secondo, una zuppa di patate con verdure crude e tocchetti di pescespada con colatura di alici merita una menzione speciale. Se ripenso a quel piatto ad occhi chiusi mi rivedo in un orto vicino alla spiaggia di Cetara dove stanno scaricando da una nave, proveniente dall'oriente, un carico di spezie. C'è tutto questo, ed anche di più, in una preparazione dal delicato equilibrio, dove il croccante delle verdure crude fa da contraltare alla morbidezza del pescespada, i sentori di spezie orientali (pepe ed altro) si fondono con la marina sapidità della colatura ma nulla prevale, regna incontrastata l'armonia.
Signori, applausi!!!
Le papille gustative sentitamente ringraziano.
L'aglianico in purezza di Orazio Rillo, vinificato rosé, sembra creato apposta per questo piatto.
Nel frattempo si è materializzata una frittura di fragaglie di assoluto valore sia per la
varietà dei pesciolini, sia per la tecnica di cottura. Le fragaglie vengono posta nell'olio ancora a bassa temperatura che viene portato velocemente ad alta temperatura. Il risultato è notevole, la preparazione ne acquista in digeribilità e sapore.
Arriva il dessert, la dolce ricotta di bufala trova squarci di freschezza nella presenza del cantalupo (nessun commento sul biscotto in quanto chi vi scrive è allergico alle nocciole). Dal numero dei bis in circolazione direi che anche questo piatto e stato molto apprezzato. Lo accompagna uno splendido Moscato di Pantelleria (Lago di Venere).
Piccola sorpresa finale (fuori menù) una calda, dolce, fragrante, aerea maddalene.
Che goduria.
Giove e Pluvio, memori della nostra dedizione a Bacco, si rivelano clementi, smette di
piovere proprio mentre ci accingiamo a ritornare.
Anche gli Dei sorridono con noi alla bella serata.
Il firmamento enogastronomico campano ha trovato un nuovo protagonista: Rocco e i
suoi fornelli.
Giuseppe Minniti

La Lanterna

La Lanterna
Via C.G. Aliperta 8 Somma Vesuviana (NA)
Tel. 081/8991843; Chiuso: lunedì;

Enoteca Luna
Via Passariello - 80038 Pomigliano d`Arco (Na)
Tel. 081/3297001
Aperto la sera dopo le 20,00

Baccalà e Whisky, storia di un pomeriggio di follia golosa.
E' giovedì io e il mio fido amico Michele siamo in auto indecisi su dove andare a mangiare un boccone "leggero" prima di rientrare in ufficio.
Idea!!!
Ti porto a "La Lanterna" a Somma Vesuviana a mangiare un po' di baccalà;
Michele accetta di buon grado.
Arriviamo alle 14.15 in sala due tavoli occupati, ad uno dei due scorgo Vincenzo Sodano detto “Vicienz `o shock”, ma di lui parleremo dopo. Luigi solerte e simpatico raccoglie le ordinazioni e la raccomandazione di piccole porzioni. Antipasto di baccalà marinatocon pepe rosso, buono; un disco di verdurine lessate, attentamente impanato e fritto accompagnato da una cremina, piatto particolare e ben riuscito.
Avvoca' Vi faccio assaggiare un risotto con limone e baccalà? Proposta accettata a patto di avere anche il mitico pacchero con baccalà, pomodorini del piennolo, pinoli ed olive.
Entrambi i piatti risulteranno ottimi e soprattutto noto una nuova attenzione, i piattisono caldi. Bravo Luigi.
Per secondo, uno in due, quattro pezzi di baccalà (in bianco con le olive, fritto, arrostito e con il sugo) squisiti!!!! Per il vino un bianco siciliano ci tiene ottima compagnia, la Segreta di Planeta.
Nota debole del locale sono sempre stati i dolci, questa volta abbiamo la ventura di trovare quattro teglie appena sfornate di torte fatte dalla madre di Luigi. Io opto per il migliaccio di antica memoria, buono, Michele per una torta ripiena di marmellata. Normalmente dalla magica cantina di Luigi spunta sempre qualche Whisky single malt, anche questa volta ne esce una bottiglia, quasi finita, delle terre alte. A questo punto entra prepotentemente inscena come un torrente in piena “Vicienz o' shock”: Avvoca' ma quellabottiglia mica è privata??? Si siede al nostro tavolo e comincia una approfondita spiegazione sulle quattro tipologie di Whisky.
Nel frattempo la bottiglia è finita. Allora Vicienz impone al "povero" Luigi di scandagliare la sua riserva privata. Ne escono un McCallan single malt dieci anni d'invecchiamento ed una bottiglia risalente al 1984 anch'essa di decennale invecchiamento. Ottimi!!!Ma non è facile fermare Vicienz, non sente ragioni dobbiamo andare con lui alla sua enoteca a Pomigliano, la aprirà apposta per noi.
Piccola digressione Vincenzo Sodano è il titolare di un piccolo scrigno "Enoteca Luna" (una quindicina di metri quadrati) dove si compra e si assaggiano grandi vini e grandi liquori accompagnati da piccole prelibatezze (salumi formaggi ecc. ecc.), il locale si trovavicino all'ingresso della villa comunale di Pomigliano ed apre solo la sera dopo le otto ma tira mattina.
Arriviamo a Pomigliano Vicienz apre il locale e subito si dirige verso un scaffale da dove tira fuori una scatola di legno da cui trae un Montecristo che poi accenderà con immensa devozione, quindi apre una bottiglia di Whisky invecchiato in botti di sherry e ci porge dei dischetti di cioccolatino Amadei, il tutto col sottofondo di splendida musica Jazz.E l'ufficio???
Be’ siamo arrivati alle 19.00 giusto in tempo per chiudere ma in compenso che pomeriggio di piacevole follia.
Un avvocato per niente pentito.
Giuseppe Minniti

P.S. Su questa inconsueta avventura il mio amico, Donato De Vita, Professore al Liceo classico di Casoria, ha inteso scrivere questo simpatico sonetto:

Liti e Minniti
La gente aspettava sbuffando da ore
lì nello studio alla Meridiana.
L'attesa snervante, l'ira malsana:
tutti fremevano in preda al furore.

La moglie lo chiama, che batticuore:
il Nokia squilla, nessuno risponde.
Nasce il sospetto, gli piaccion le bionde:
stasera lo sgozzo il reo traditore!

Era scomparso nel nulla il Minniti.
Non più controversie, né tribunali,
bando ai clienti, ai ricorsi, alle liti.

L'andavan cercando di qua e di là:
preda non era di labbra sensuali,
ma sol di un mussillo di baccalà.
Donato De Vita

Taberna Vulgi

Taberna Vulgi, Miracolo Irpino
Via Casino 6 Santo Stefano del Sole (AV)
Telefono 0825.673664
Giorno di chiusura: Domenica sera e Lunedì
Come preannunciato partiamo per le terre d'Irpinia, purtroppo l'amico Varcamonti per problemi comunioneschi non ha potuto partecipare. Dopo una cavalcata nei boschi del monte Terminio ci portiamo presso il ristorante dell'ottimo Mariconda.
Il ristorante è pieno ma noi abbiamo prenotato con largo anticipo quindi i nostri due tavoli (uno per gli adulti, sei, ed uno per i pargoli, quattro) ci attendono apparecchiati.
Il locale ha due sale interne, una con un tavolo tondo grande (dodici posti circa) ed una con vari tavoli in cui fanno bella mostra una notevole selezione di distillati e una bella serie di bottiglie di vino. I bagni sono piccoli ma puliti. Noi prendiamo posto nella veranda.
Il viso giocondo di Giovanni ci viene incontro per augurarci il benvenuto e ci propone di lasciar fare a lui. Memore di precedenti esperienze negative (vedi Le Trabe) tentenno ma lo sguardo franco e fiducioso del buon Giovanni mi convince, quindi lasciamo fare a lui con l'eccezione dei dolci che saranno a scelta.
Si inizia con un prosecco che accompagna un'appetizer (cremina di pomodori verdi con pane tostato) quindi ci vengono proposti quattro assaggi dagli antipasti in lista (involtino di zucchine profumato alla menta, involtino melanzane, tartelletta di polenta con crema ai capperi, sformatino di zucchine su crema al formaggio) tutti uno meglio dell'altro con menzione particolare per l'involtino di zucchine. Accompagniamo quest'inizio d'avventura con un Aglianico Macchialupa, tra i più morbidi assaggiati di recente. Si passa quindi ad una passatina di fagiolini con sformatino di ceci (entusiasmante!), a dei mezzi paccheri zucchine e baccalà con un filo di olio di Ravece (squisiti) e, per finire con i primi, a delle taglitelline di grano bruciato con ragù di coniglio (applausi a scena aperta!!!!! erano anni che non mangiavo un coniglio così ben trattato). Nel frattempo la nostra bottiglia di Aglianico era finita e veniva prontamente sostituita con un'altra di Molettieri dal gusto più profondo e complesso con tannini che più si addicevano al prosieguo.
Un ottimo piatto con due tagli di carni diverse (tagliata di spalla e coperta di costato agli aromi) cotte su pietra ollare con verdurine scottate rappresentavano un altro delizioso passaggio.
A questo punto il sottoscritto con i suoi compagni di avventura procedevano ad assaggiare i salumi di produzione propria (pancetta, capicollo e salame), o meglio a cura dei genitori del buon Giovanni (complimenti vivissimi), ed un paio di formaggi (Caprino Silano e pecorino di Carmasciano) accompagnati da varie confetture (io personalmente li ho apprezzati senza alterazioni di sapore).
Uno squisito sorbetto al melone preannunciava i dolci che seguivano: Scomposta di fragole (eccezionale); millefoglie con crema chantilly (eccellente), Raviolo fritto con mela annurca (personalmente da me non assaggiata ma dalla faccia degli amici direi ottimo); inoltre, non ordinato ma offerto dal nostro ospite, una Zuppa inglese servita in un bicchiere alto e stretto i cui i vari strati colorati facevano un bellissimo effetto cromatico, naturalmente, il sapore non era da meno.
Dopo cotanto godere non si poteva non chiudere questa esaltante esperienza gastronomica senza un Ron e quindi la scelta ricadeva su un La Mauny di Martinica da 10 anni di invecchiamento.
A proposito, dimenticavo, per i bambini (quattro), gli appetizer, due antipasti di prosciutto e mozzarella e due antipasti di involtini di melanzane; per primo due gnocchi alla sorrentina e due fusilli ai funghi porcini (squisiti), poi il sorbetto anche per loro. Qualcuno obietterà fusilli ai funghi porcini per i bimbi??? Ma Silvio, il mio pargolo maggiore, è già un piccolo gourmet!
Saluti, abbracci e baci con il nostro ospite con la promessa di rivederci presto per assaggiare la maialata.
E il conto?
Ah già, il conto, bé' € 320,00 tutto compreso. Fate un po' voi le valutazioni del caso….
Giuseppe Minniti.

Oasis

Oasis, una magica favola
Ristorante Oasis - Sapori Antichi
Via Provinciale, 10 83050 Vallesaccarda (AV)
Tel. 0827.97021 - 97444
Chiuso giovedì

C'era una volta....
Potrebbe iniziare così la bella favola della famiglia Fischetti solo che, per nostra fortuna, la favola è realtà. E che realtà!!!
Lunedì a pranzo, come al solito trovare un ristorante di lunedì è un'impresa ardua, comunque, complice un po' di tempo a disposizione, decidiamo (io e Michela) di fare questa bella passeggiata (240 Km tra andata e ritorno).
Tavoli apparecchiati con la solita cura, bel tovagliato, ottimi accessori e fiori freschi. Il menù prevede quattro menù (colazione di lavoro, i soli primi, il pranzo all'antica ed il menù degustazione) con costi variabili dai 25 ai 45 euro. Le proposte alla carta si articolano in 7 antipasti a 12 euro; 4 zuppe a 10 euro; 9 primi a 12 euro e sei secondi di cui tre a 15 euro e tre a 18 euro.
Complessivamente una proposta molto ampia e sostanzialmente basata su prodotti irpini, quindi carne e verdure con un'unica eccezione ittica: il baccalà, baluardo della cucina tradizionale irpina.
Mentre studiamo la carta ci vengono servite delle piccole, e squisite, crocchete di patate calde con un prosecco, quindi arrivano i pani, tutti rigorosamente di produzione propria (bianco, con crusca, con pomodoro, con noci e sfogliatina di pane con le cipolle), menzione particolare per quello alle noci e le sfogliatine con cipolla.
Per antipasto scegliamo zeppola di patate e baccalà su passata di pomodoro e olio di sedano; piatto assolutamente squisito: la zeppola di aerea fragranza nascondeva un cuore di baccalà dalla cremosa consistenza, la passata e l'olio conferivano aroma e freschezza in un gioco di contrasti di temperature e consistenze veramente impareggiabile. Ma ci sono anche le crocchette di ricotta, fiori di zucca e zucchine servite su un battuto di pomodoro e profumate con basilico fritto; preparazione stupenda, la leggera ricotta si sposava in maniera divina con le verdure, la frittura esterna croccante e sapida, il tutto esaltato dal pomodoro e dal profumato basilico. Accompagniamo con un Fiano di Guido Marsella del 2003, vino di grande struttura dal colore giallo intenso e dalla gradazione alcolica di tutto rispetto (14°).
I primi vengono serviti in piatti caldi coperti da campane di silver che una volta sollevate lasciano in libertà profumi ed aromi inebrianti. Il mio pacchero con mussillo di baccalà e peperoncini verdi, reso ancor più intrigante dalla presenza di croccante pane tostato sbriciolato, è di valore assoluto! E' una sinfonia primaverile che viene da antiche tradizioni.
Il nostro ospite insiste affinché assaggiamo un piatto nuovo: ravioloni di burrata ed erbette con manteca campana e tartufo di Bagnoli Irpino; accettiamo più per farlo contento che per convinzione, entrambi non amiamo molto i profumi fenici del tartufo di Bagnoli. Ma grandi son coloro che sanno mettersi in discussione, per cui: complimenti! Scopriamo un piatto delicatissimo dove lo scorzone (tartufo estivo) si presenta con aromi poco marcati e si fonde perfettamente con gli altri profumi.
I Fischetti sono ospiti impareggiabili, hanno la capacità di essere accorti e presenti senza mai diventare invadenti, la sobria ricercatezza del locale mette a proprio agio
l'ospite senza fargli nascere alcuna ansia riverenziale. Sarà la bontà dei piatti, la cortesia dei titolari o chissà cosa ma questo è senz'altro un luogo magico.
Ma non distraiamoci è già giunto il momento dei secondi, per me un tenerissimo filetto, dalla brevissima cottura, con erbe di montagna e cipollotti croccanti presentato in un caldo tegame ramato. Squisito, inutile aggiungere altro.
Per Michela un vecchio amore: costolette di agnello con mollica di pane ed erbette, un piatto che, secondo lei, da solo vale il viaggio. Ammetto che è difficile darle torto.
Mentre attendiamo i dolci ci viene servito un ottimo sorbetto alle sorbe (scusate il gioco di parole ma così è!), frutto antico ed in via di estinzione ma che a me ha immediatamente riportato alla mente un celeberrimo duetto tra Pupella Maggio e Luca De Filippo indovinate un po' in quale Eduardiano capolavoro?).
La lista dei dessert trovo che sia sbilanciata troppo sul freddo, ci sono quattro gelati e quattro semifreddi oltre ad una millefoglie (con nocciole, cui lo scrivente è allergico) ed un ristretto di caffè. Michela sceglierà un gelato mentre io mi limiterò a degustare la piccola (di dimensione ma grande nel sapore) pasticceria gentilmente offerta dalla cucina.
Caffè servito in tazzine coperte e, per finire degnamente, un grandissimo Ron cubano riserva.
Per la cronaca abbiamo speso 118 euro ma quanto ci siamo deliziati.
Ci sono più di cento chilometri da fare per il rientro ma con la mia indole golosa pienamente appagata e le note di My Way a tenermi compagnia sembrano pochi metri.
Sarà un altro mistero di questo luogo magico??
Giuseppe Minniti.

Taverna 18

Taverna 18 Via Canale 11Bis Vico Equense Tel. 081.8015682
E’ venerdì 17, giorno notoriamente infausto per i superstiziosi, ma non per me.
Sono circa le 13.30 e noi ci troviamo nella zona collinare di Napoli, guardo MiKy con fare ingenuo e Le chiedo: "cosa vuoi fare?"
Sguardo malizioso e risposta scontata: "io avrei piuttosto fame".
Bene, poiché, sto guidando, La invito a verificare sul mio palmare la cartella con i ristoranti da visitare:
Il Desco? no è a Verona.
La Locanda del Palazzo? no è a Barile in Basilicata.
Il Tordo matto? no è a Zagarolo.
La Torre? no è a Fiuggi.
Taverna 18? questo è a Vico Equense ma forse facciamo a tempo.
Chiamiamo e dopo un breve consulto in cucina concordiamo per le 14,15 ma ci pregano di non tardare.
Mi avvio con i turbo alla massima pressione verso Vico Equense.
Be’, quasi alla massima pressione, visto che tra il Vomero, la Tangenziale, la Napoli/Salerno (che è tutta un cantiere) c’è poco da correre. Comunque poco dopo le 14,00 imbocchiamo lo svincolo per Vico, siamo quasi alla meta ed in perfetto orario ma….. diavolo, una transenna lungo la strada, con un "divieto d’accesso", ci segnala di svoltare verso la montagna (ach!!!).
Con risoluta baldanza maccheronica (e molta inciviltà personale) supero il segnale incurante delle conseguenze e mi avvio veloce verso il centro di Vico. Percorro altri duecento metri ed un altro segnale di "divieto d’accesso" si frappone tra me e la meta, lo supero. Oh no!! Ora la strada è chiusa!!! Niente paura c’è una traversa sulla sinistra con l’ennesimo segnale di "divieto d’accesso", la imbocco con sicurezza……. Maledizione un pullman mi si para davanti (lui dal senso corretto), ultima risorsa: un cortile sulla destra, mi ci ficco veloce e…………
ahi ahi ahi, accidenti!!! E’ il cortile del comando dei Vigili Urbani!!!!
Un gruppetto di vigili mi guarda sbalordito!!!!
Ed ora????
Michela mi guarda preoccupata e mi dice: "stavolta l’hai fatta grossa!!"
Sfodero la mia espressione più ebete (lo so non ci vuole molto! Sic!!) e con fare disinvolto, prima che loro mi contestino qualcosa, mi avvicino e gli chiedo "scusate dov’è Via Canale?"
Negli occhi dei vigili un amletico dubbio: ma questo ci fa o ci è????
Incredibilmente avranno pensato: "ci è", mi danno l’indicazione e prima che abbiano il tempo di cambiare idea ho già ringraziato e sono scappato via.
Michela mi guarda divertita e mi dice "sei proprio…." (lasciamo perdere va’).
Taverna 18 è proprio alle spalle del comando, quindi pochi minuti dopo siamo alla agognata meta.
Attraversiamo un bel vialetto con ai lati dei curatissimi prati, con altissime palme secolari ed arredamento da esterno (tavoli, sedie, salottini ecc. ecc.), d’estate dev’essere piacevole cenare all’ombra della luna. Sullo sfondo uno splendido palazzetto antico perfettamente restaurato in cui il ristorante trova collocazione al piano terra. All’ingresso sono posizionati, all’interno di tre parallelepipedi di cristallo, altrettanti monitor che rimandano le immagini della cucina, la sala è ampia e profonda e vi si sovrappone un soppalco con altre tre sale. I tavoli sono da quattro e sei posti, ben distanziati e di stile moderno; le poltroncine sono di gusto retrò; mobili minimalisti e belle bottiglie alle pareti, sullo sfondo una vetrina a cristalli multicolore su cui vengono proiettate le ombre di bottiglie retroilluminate.
Davvero un bel locale.
Ci accomodiamo in fondo alla sala e ci vengono portati due menù ben fatti e molto colorati. La copia di Michela è senza prezzi (chissà perché debbono pagare sempre gli uomini).
Il mare e la terra sono equamente rappresentati, i nomi dei piatti sono tutti lunghissimi (almeno due righe) e tutti lasciano prospettare pietanze altamente complesse e ricercate.
Ci sono due menù degustazione: mare a 55 euro e Terra a 50 euro. Alla fine stanco di complicarmi la vita opto per il menù degustazione di mare. Michela segue la mia scelta ma chiede di sostituire il primo. Nessun problema, anzi il nostro ospite mi chiede se voglio anch’io fare delle sostituzioni. Arriva un calice di prosecco e per il vino (visto che MiKy è astemia) concordiamo per un’offerta a bicchiere che varia a seconde delle portate (Bravi, finalmente qualcuno lo ha capito che questa è una soluzione molto apprezzata!!!!).
Arriva in tavola, in attesa dell’antipasto, una tartare di orata con agretto di limoni accompagnata da erbette e fiori. Be’ se il buongiorno si vede dal mattino questa sarà una giornata memorabile; ottimo, il pesce è freschissimo e gustoso, le erbette ed i fiori regalano profumi e sensazioni gustative davvero interessanti, molto bene. Arriva pure un sacchetto di tela, chiuso da un laccetto, contenente piccoli pani appena sfornati in cui si coglie una leggerissima ma preziosa nota di vaniglia.
Terminato il mio prosecco mi viene presentato il primo calice di vino, una falanghina del 2005. Il colore oro antico, i profumi estremamente complessi mi inducono a pensare ad una recente conoscenza, quindi chiedo con curiosità il nome dell’azienda. Masseria Felicia risponde pronto il nostro anfitrione ma Lui non sapeva che durante la visita da Badevisco avevamo avuto una ricca presentazione di questo vino e, quindi, con un po’ di presunzione, snocciolo le mie informazioni sul vino e sulla storia dell’azienda, non mancando di fargli i miei complimenti per l’ottima scelta.
Una scintilla di ammirazione negli occhi del mio interlocutore mi dice che sono entrato nelle sue grazie.
Nel frattempo viene servito "elisir di pomodoro all’arancia con erbette gentili e crostacei", piatto inusuale in quanto l’elisir è una sorta di leggerissima tisana al pomodoro in cui sono evidenti i sentori di arancia ed in questo brodetto caldo sono immersi, praticamente a crudo, una vongola, uno scampo, un gambero ed un filetto di triglia. Gli ingredienti sono eccelsi, il piatto per quanto inusuale è equilibrato e piacevole.
E’ la volta quindi di un bel filetto di rana pescatrice su crema di avocado e lime con carciofi crudi. La versione originale del piatto (che secondo me doveva essere la più appropriata) prevedeva i porcini di quercia crudi ma non essendovene disponibilità gli stessi erano stati sostituiti dai carciofi. Piatto complesso per consistenze e contrappunti (dolce, sapido, acido) molto interessante anche se in alcuni passaggi il carciofo prendeva un po’ il sopravvento.
Il mio primo piatto è uno straordinario "paccheri con ragout di scorfano e zucca" (precisiamo: i paccheri erano stesi!!!). Grandissimo piatto!!! Gustoso, dal sapore intenso e pieno, veramente una goduria.
Per Michela, invece, una preparazione molto più delicata: "strozzapreti con crema di scampi allo zafferano e rucola piperita con scaglie di pecorino". Anche questo un gran piatto il delicato dolce degli scampi che in perfetto equilibrio si fonde con il gusto del pecorino e l’amaro della rucola, ottima preparazione.
Sul primo sostituiamo il calice di falanghina con un più appropriato Trebiano d’Abbruzzo barriccato.
Nel frattempo l’intesa tra me ed il direttore di sala migliora con il passare delle portate e dopo un ulteriore scambio d’informazioni (finalmente a Napoli sta per aprire un ristorante di altissimo livello a P.zza San Domenico Maggiore) procediamo con il secondo: Filetto di rombo chiodato su patate, accompagnato da asparagi croccanti avvolti nel lardo di colfiorito. Grande piatto!!!!! Sapori ben delineati, nessuna prevaricazione, profumi e consistenze che esaltavano i prodotti…..
Quando si dice: cucinare è un’arte!!!!
Leggo negli occhi di Michela amore profondo….
Quando si dice: prendere per la gola!!
Ma è giunta l’ora del dessert e la nostra guida in questo viaggio culinario ha avuto la delicatezza di farci preparare dolci diversi, così da poterne assaggiare due.
Ottimo il fagottino di mele aromatizzato al calvados (la pasta sfoglia che racchiudeva il ripieno era eterea).
Straordinario l’umile pasticciotto napoletano accompagnato da un’insalata di agrumi (tra cui anche pompelmo giallo e rosa).
Oramai in perfetta sintonia con il mio anfitrione questi mi serve un Rum Demerara del 1998, seta pura!!!!
Cioccolatini e gelatine di produzione propria per finire.
Finire?
Volevo dire prima di iniziare il giro del locale, le tre sale sopra sono di diverse dimensioni e colori, in particolare una in stile giapponese ed un'altra minuscola che affaccia sul giardino per…. cene intime. La cucina è una vera navicella spaziale, siamo ai massimi livelli tecnologici in Campania. La cantina, ricavata dall’antica cisterna del palazzo, è un gioiello con le sue 480 etichette.
Piccolo anneddoto: Il nome della Taverna 18 era ricavato dal numero civico, appunto il 18, improvvisamente, due giorni prima dell’inaugurazione, il comune ha cambiato la numerazione ed il 18 è diventato 11bis.
Per concludere: non vedo l’ora di ritornarci.
Ser Giuseppetto

domenica 6 gennaio 2008

Tocai Toros

Al naso "roncheggia" decisamente... Stavolta siamo sicuri di averlo lo abbiamo beccato e ci rilassiamo! Ortica, foglia di pomodoro, fiori di sambuco: una carrellata di sentori dai caratteristici riconoscimenti erbacei che inequivocabilmente ci porta a scommettere su un “classico” Sauvignon da ponca friulana. A poco, a poco i toni si schiariscono e quei marcati profumi vegetali sfumano lasciando la scena ad un assolo fatto di erbe aromatiche e di lievi rimandi agrumati. Qualche dubbio si insinua…. In bocca l’acidità dà slancio alla beva che è rinforzata da una mineralità di razza, decisamente profonda. Chiude in eleganza con una persistente nuance ammandorlata. Siamo proprio curiosi, aspettiamo trepidanti che venga disvelata l’etichetta. Touchè…Ancora una volta Un Tocai ci spiazza!

Brut Rosé Première Cuvée Bruno Paillard

Un brillante rosa cipria di alto lignaggio, con riflessi tra il corallo e il salmone, esaltato dalle trasparenze del vetro chiarissimo che si intravede dal collo scoperto. Incessante e fittissimo il perlage, con il naso intarsiato dai ricami di acqua di rose e burro, poi gelée di cotogne e patisserie, l’epilogo è segnato da una persistente nota di fragolina selvatica dai contorni appena accennati. Ogni sentore ha il tocco, fugace ma altrettanto vivido e deciso, di una pennellata di Monet.Tutto ci riporta alla Francia: la serica effervescenza carezzevole e disponibile al palato, quell’“intraducibile” eleganza che accompagna ogni sorso ma sopra ogni cosa il Pinot Noir, che parla sottovoce, senza gridare, eppure è lì presente con la sua anima nobile e verace allo stesso tempo… Francia, Francia, Francia.