venerdì 12 settembre 2008

Degustazione “napoletana” tra amici.

Di Luigi Metropoli (su gentile concessione)

Extra Brut Riserva Stocker 2000
Soave Classico Pieropan ‘97
Weiss Terlaner Stoker 2006
Blaterle Eberlehof 2006
Castel del Monte Rivera ‘87
Bardolino Bertani ‘94
Hofstatter Baluburgunder s.a.
Lagrein Gries ‘93
Rosso del Carso Castelvecchio ‘91
Malvasia di Bosa “Licoro” Zarrelli 2004


Divertirsi degustando e spiando le etichette solo dopo aver immaginato le più improbabili denominazioni e i più improbabili vitigni.

Nella mia settimana “meridionale” spunta la degustazione più assurda degli ultimi tempi. Fabio aveva scommesso metà della propria cantina a chi avesse indovinato il Blaterle, vitigno che fino a ieri sera non solo mi era ignoto all’assaggio, ma ne ignoravo persino l’esistenza. Ovviamente su 6 partecipanti alla bizzarra degustazione nessuno si è avvicinato. Io pensavo al sylvaner, ma evidentemente ne era un parente più o meno lontano.
L’idea era quella di verificare la tenuta di alcune bottiglie d’antan non del tutto adatte all’invecchiamento. In mezzo, qualche sorpresa, come lo splendido extra brut riserva di Stocker 2000, 60 mesi sui lieviti, il Weiss Terlaner dello stesso produttore e appunto il carneade di turno, il Blaterle.
L’Extra Brut, paglierino vivo al colore, ha un naso estremamente complesso, molto al di là dello stancante sentore lievitoso, e bocca molto vivace, fresca, pulita, lunga. Io, che non amo particolarmente le bollicine, sono capitolato sotto questa bandiera altoatesina.
Poi si parte con le bottiglie coperte.
Il primo è un bianco. Colore giallo paglierino intenso con riflessi dorati. Naso piuttosto ridotto e appena burroso. Bocca scomposta e un po’ decaduta. Impossibile risalire al vitigno. Scopriamo le carte: è il Soave classico di Pieropan, della vendemmia 1997.
Per spezzare, si va verso un bianco giovane, il Weiss Terlaner 2006 di Stocker, (da un uva autoctona non meglio specificata), bello limpido in un paglierino tenue. Naso molto fresco che varia tra menta e canfora, con affioramenti di erbe aromatiche. In bocca è un vino piuttosto diretto, teso, bella spalla acida che tiene vivo il sorso. Mi piace particolarmente: si beve con molta facilità, senza tuttavia rinunciare alla complessità. È infatti piuttosto articolato, scalpitante. Niente affatto banale. Poi è la volta dello sconosciuto Blaterle 2006 di Eberlehof. Naso finemente aromatico, tendente più al selvatico che al minerale, che rivela immediatamente il suo carattere nordico per i sentori di erbe di montagna. In bocca è schietto, sottile, con una buona mineralità, piuttosto marcata. Sembra un fratello minore del riesling.
A questo punto si chiude con i bianchi e si parte coi rossi. Tutti rigorosamente con bottiglie coperte.
Il primo, dal colore granato appena un po’ scarico e mediamente compatto, ha un impatto spaesante: per me ci sono note di peperoni verdi che riconducono ai cabernet. Per Tommaso si tratta piuttosto di un sentore vagamente affumicato. Tuttavia il naso è caldo e affascinante. La bocca è appena smagrita, pur dimostrando una buona tenuta e rivelandosi ancora abbastanza vivace. Chiude appena corto. Nessuno ha indovinato la provenienza o meglio: nessuno ci ha provato. Era un Castel del Monte rosso del 1987 della celebre azienda pugliese Rivera.
È la volta di un altro campione d’antan: colore granato abbastanza compatto, naso con accenni di liquirizia, elegante, complesso, abbastanza caldo (non tanto caldo da farlo assomigliare ad un vino del Sud: e infatti i presenti si sono divisi su questo punto). In bocca non riesce del tutto a mantenere le promesse che il naso generosamente aveva concesso (come l’80% dei vini sentiti). Pur mantenendosi integro e tutto sommato piacevole e vivace, perdeva la complessità annunciata, mostrando un palato più esile. Sorpresa generale nel leggere l’etichetta: trattatasi di un Bardolino di Bertani del ’94. Stando così le cose, essendo un vino senza la minima pretesa d’invecchiamento, giù il cappello per la prodigiosa tenuta di 14 anni.
La bottiglia successiva ha un bel colore granato compatto, limpido e trasparente, naso molto preciso, che varia tra accenni minerali (idrocarburi) e un frutto rosso ancora vivo. Poi un corredo complesso di erbe aromatiche, china, rabarbaro. La bocca incredibilmente corrispondente e lunga, senza sbavature, appena un po’ verde. Mi sono fatta un’idea del possibile vino. Per me è un pinot nero. E una volta tanto ci prendo. Trattasi del Blauburgunder di Hoffstatter, senza annata. Molto probabilmente siamo di fronte ad un campione di una ventina d’anni. Di sicuro il vino più performante.
A seguire c’è un vino dal granato compatto, piuttosto fitto. Naso cioccolatoso e di cuoio, con qualche accenno ancora di frutta matura, che assomiglia ad una prugna. È un “vinone” che ha anche un bonus di finezza. Quasi tutti hanno creduto si trattasse di un vino meridionale (molti di noi hanno pensato alla Puglia, per un vino alla cui composizione poteva concorrere anche l’aglianico in percentuale, a donargli quel pizzico di eleganza). In bocca però non ha la complessità che ci si aspettava e la possibilità aglianico svanisce. Tiene comunque bene e si difende, risultando molto bevibile a dispetto della potenza prima mostrata. Ad ogni modo abbiamo sbagliato tutto. Era un vino del Nord, molto a Nord. Un bel Lagrein di Gries del ’93.
L’ultimo vino coperto è forse il più deludente (Mauro ne conviene). Colore in linea con i precedenti, mentre il naso è poco intenso e la bocca un po’ corta, sebbene integra e solida. Trattasi di un Rosso del Carso (forse a base merlot) del ’91 di Castelvecchio.
Dopo il dolce sorseggiamo un po’ di Malvasia di Bosa, il “Licoro” di Zarrelli. Colore giallo intenso che vira verso il dorato, con riflessi di oro antico. Naso estremamente verticale, tutto improntato su sentori agrumati che muovono dal fascino caldo del bergamotto fino all’esotico lime. In bocca c’è quel piacevolissimo gioco a rimpiattino tra la tendenza dolce e un carattere secco, quasi austero e rigoroso. I ritorni odorosi sono in linea con quelli percepiti all’olfatto. Più che sapido è un vino che poggia sostanzialmente sull’acidità, molto spiccata e rinfrescante. Un tripudio di agrumi. Vino nello stesso tempo semplice nella beva per la sua spiccata nota agrumata, ma piuttosto articolato e dotato di gran progressione al palato. Molto distante dai tratti ossidativi che caratterizzano altri campioni della tipologia.

Serata piacevole e spericolata, all’insegna dell’allegria e del disimpegno (una volta tanto…). Quando i discorsi esulavano da argomenti enogastronomici, si parlava del Napoli calcio. Eh, oh!

martedì 9 settembre 2008

Sardegna...non solo Briatore!

Sardinia… una terra sferzata dalle raffiche violente del mistral, il vento più amato dal popolo dei surfisti ma un pò meno dagli altri frequentatori delle splendide spiagge sarde, soprattutto quando si esibisce in tutta la sua esuberante possenza sradicando senza pietà gli ombrelloni che erano stati faticosamente trivellati tra le dune di sabbia. La Gallura è da vent’anni l’immancabile appuntamento delle mie vacanze estive ed ormai, dopo aver saccheggiato svariate enoteche e cantine attentando al patrimonio familiare, posso affermare di aver approfondito con sufficiente ampiezza il lato etilico di un’isola da un pò di tempo identificata purtroppo negli eccessi “vippaioli” del Billionaire, che guadagnano con il loro sfarzo strombazzato le prime pagine degli ameni rotocalchi estivi e non solo…(leggi qui) Lo stile “cafonal chic” del Flavio e dei suoi sbiaditi epigoni non deve infatti far dimenticare la ricchezza di un’isola che ha saputo conservare tradizioni antiche e pregiati giacimenti gastronomici. Dal nostro punto di vista (tranquilli, è sempre un blog che parla di vino…) la Sardegna per ricchezza varietale e livello qualitativo è oggi assai vicina a regioni di più consolidata tradizione vitivinicola, grazie ai molteplici terroirs di straordinaria varietà geologica che assieme alla variabilità pedoclimatica esaltano magnificamente il ricco patrimonio ampelografico. Non è un caso che i terreni di disfacimento granitico della Gallura, dominati dal fresco e secco maestrale, siano diventati il regno del Vermentino, e gli scisti ed i venti del quadrante orientale abbiano fatto dell’Ogliastra la madre del Cannonau, così come le sabbie dell’isola di Sant’Antioco nel Sulcis hanno valorizzato come in nessun’altra parte del mondo il Carignano e la bassa Valle del Tirso ha saputo custodire gelosamente da secoli la flor, misteriosa genitrice della Vernaccia di Oristano, tanto per fare qualche esempio… L’elenco potrebbe continuare ancora per molto ma preferisco fermarmi qui. Un’isola che merita di essere vissuta a 360 gradi, godendosi sia le mille trasparenze del suo mare che la natura incontaminata delle sue più intime zone interne: quelle che scopri solo se ti metti in macchina in compagnia del TomTom dribblando gli agriturismi (poco agri e molto turismi!) dal porceddu facile made in Denmark, ed i paesi-non-paesi, modello Disneyland, della patinata Costa Smeralda… poi, d’improvviso, curva dopo curva, stazzu dopo stazzu, ti ritrovi a tu per tu con l’anima più rude e selvaggia e certamente più autentica della Sardegna, quella che percepisci immediatamente quando metti piede in questa terra e vieni avvolto dai mille profumi della macchia mediterranea arsa dal solleone, ed in un attimo ti senti lontano mille anni luce dalle paillettes di Briatore e della sua corte dei miracoli.
E’ inutile dirvi che in tanti anni di frequentazione etilica della Sardegna tanti sono stati i coup de coeur: dagli arcinoti figli del grande Giacomo Tachis, Turriga & Terre Brune, l’orgoglio dell’enologia sarda, ai vermentini dall’insuperabile rapporto qualità-prezzo come Canayli e Funtanaliras o i fuoriclasse come Capichera, Genesi e Arakena, e ancora la mitica Vernaccia Antico Gregori di Còntini, da pronunciare rigorosamente con l’accento sulla “o”, oppure Josto Miglior il Cannonau di Jerzu. L’elenco anche qui potrebbe essere sterminato ma scelgo di auto-limitarmi ai “vini del cuore” (copyright L.Pignataro) di quest’estate 2008…
Karenzia è un Vermentino Superiore di nome e di fatto…E’ il frutto sapiente delle vigne storiche del Giogantinu con ben quattordici gradi, una vis alcolica che a prima vista potrebbe mettere un pò di soggezione, ma che quando si versa nel bicchiere si offre con un giallo paglia di intensa luminosità e di splendida compattezza, che subito fanno dimenticare l’importante titolo alcolometrico. La macchia mediterranea intrisa di rosmarino e mirto definisce fin dalla prima olfazione i contorni di un naso articolato e complesso; molto espansivo nei profumi, rilascia gradualmente altri forti indizi di appartenenza al terroir gallurese con continui soffi di mineralità salmastra ad arricchire il bagaglio aromatico che si lascia respirare con gratificante soddisfazione… In seconda olfazione sono i riconoscimenti di frutta a polpa bianca e gialla in piena maturazione a dominare la scena. In bocca si diffonde senza incertezze sul palato grazie ad un ingresso possente e disinvolto con la rotondità della glicerina e lo spessore della ricchezza d’estratti, ben sostenute dalla sapidità che con il passare dei secondi si tinge di suggestioni saline amplificate da calde e possenti sferzate alcoliche. Nell’allungo finale in evidenza gli spunti di frutta esotica avvolti da note mellite. A tavola si sposa con l’aragosta di Castelsardo, per un matrimonio di territorio dove trionfano sia l’amore che la convenienza, a “sorpresa” si trova a suo agio anche su succulenti salsicce pepate cucinate alla brace. Un bianco “bidimensionale” nell’abbinamento che conferma quanto sia semplicistica la trita e ritrita e forse un pò troppo manichea equazione dei bianchi sul pesce e delle carni con i rossi. Provare per credere!
Sarà stato il felice abbinamento con delle costate a cardìga (alla griglia) di bovino di Calangianus, ma per il Kanai, Carignano del Sulcis riserva 2003 della Sardus Pater, è stato un trionfo per come si lasciava bere in assoluta scioltezza, incuriosito ho voluto riprovarlo a distanza di qualche giorno stavolta in formato magnum e con “su sirbone” alias il cinghiale, la classica selvaggina da pelo della Sardegna, cotto in umido con olive nere…altro convincente successo.Un vino di grande temperamento che il rovente millesimo non è riuscito ad esasperare, conservando intatta la solare e calda anima mediterranea senza sbavature ed eccessi, il marker inconfondile che si accompagna al Carignano quando viene allevato nelle zone più vocate: dal Languedoc-Roussillon francese ed alla Catalogna iberica fino alla Tunisia passando per l’estremo lembo di Sud-Ovest della Sardegna, il Sulcis, e trovando nell’isola di Sant’Antioco un’enclave in cui vigne ultrasecolari ad alberello regalano il loro frutto migliore crescendo ad un passo dal mare e su piede franco, non avendo mai conosciuto, beate loro, la fillossera grazie alla granulometria di un terreno composto da sabbia bianca minutissima, talmente fine da rendere difficile la costruzione delle gallerie sotterranee con le quali il famigerato afide ama spostarsi da un ceppo all’altro. Nel bicchiere conquista per la sontuosità della beva, ma ancor di più per la capacità di ravvivarsi ad ogni sorso, senza stancare il palato nonostante la sua esuberante e ricca materia. Si concede al naso con generosità grazie ad una incalzante successione di viola passa e di confettura di prugna ancora turgida e vitale, poi sprigiona ciliegie sotto spirito, note speziate di cannella e vaniglia ed in ultimo di una ventata di cuoio e cioccolato. Una trama olfattiva assai intricata dove tutti i profumi, avvolti gli uni agli altri, sono immersi in un elegante fondo balsamico. Potente e caldo appena trova la bocca, svela il suo ampio corpo definito da un tannino dal passo felpato che accarezza con discrezione le papille gustative. Nel lungo finale una marcata sapidità tempera la dolcezza dei rimandi fruttati che affiorano in retrolfazione. Un’ulteriore conferma di come il Carignano appartenga, senza ombra di dubbio, al ristretto novero dei grandi vitigni a bacca rossa del Mediterraneo.