martedì 28 marzo 2006

LA Disfida di Bolgheri: Prima Tappa.

A sentir parlare la famiglia Gaja l’investimento a Bolgheri altro non sarebbe che un buen retiro, una sorta di rifugio consolatorio nel quale riposarsi lontani dalle bizze climatiche della valle del Tanaro e dalle asprezze, spesso difficili da domare, del Nebbiolo, e farsi cullare docilmente dalla solare mediterraneità della Maremma toscana. Ne dobbiamo dedurre, con una certa evidenza, di non aver goduto troppo della benevolenza di Giove Pluvio, vista la pioggia fine ma incessante che ci ha accompagnato per tutta la giornata, a meno di voler dar la caccia al menagramo che si è infiltrato tra di noi! E neanche possiamo fare a meno di notare il palese ritardo della fase vegetativa delle viti che ammiriamo mentre percorriamo la Bolgherese, e siamo quasi sul punto di inanellare tutti i luoghi comuni più usati ed abusati, del tipo non ci sono più le stagioni di una volta e così via, ma essendo la serie lunga e noiosa riteniamo sia meglio per tutti desistere subito.
Finalmente arriviamo a Cà Marcanda dove, superato il cancello d’ingresso, un corto vialetto adornato di piante aromatiche ci conduce ad una costruzione che si sviluppa per una superficie complessiva di 9600 mq., gran parte dei quali seminterrati, mentre il corpo dell’edificio visibile è rivestito con la stessa pietra estratta durante lo scavo delle fondazioni. Tutt’intorno 350 ulivi secolari, oleandri e prato verde all’inglese di prosaica gramigna ingentiliscono la collinetta artificiale che nasconde alla vista l’imponente struttura disegnata da un importante architetto astigiano, il settantenne Giovanni Bo
All’interno siamo colpiti dagli spazi dagli ampi volumi, idealmente divisi da pilastri in ferro arrugginito ad hoc e riempiti di cemento armato, ricavati riutilizzando i tubi di un oleodotto dismesso della Dalmine. Non ce lo aspettavamo, e rimaniamo in silenzio e un po’ intimoriti da quell’atmosfera quasi sacrale che ci circonda, con quei vuoti che invitano al raccoglimento e alla riflessione tipici delle moschee musulmane. Una cantina iper-tecnologica, estremamente funzionale ed essenziale, in cui i vari passaggi durante le fasi della vinificazione non prevedono l’utilizzo di pompe ma avvengono per caduta sfruttando la forza di gravità e dove l’ impianto di condizionamento corre, nascosto alla vista, sotto il pavimento nero rivestito di piastrelle in basalto vulcanico vetrificato dalle alte temperature. Estrema cura per ogni minimo dettaglio, nulla è stato lasciato al caso, perfino le barriques vengono ordinate seguendo al millimetro le fughe del pavimento, ed addirittura lo stesso Angelo Gaja più volte è stato scoperto, dai suoi fidati collaboratori, sdraiato sul quel pavimento mentre era intento a controllare il loro perfetto allineamento.
Potrebbe sembrare una esasperata e forse un po’ maniacale ricerca della perfezione fine a se stessa: in realtà altro non è che massimo rispetto per l’uva e il suo prezioso liquido. Tutto è consacrato al vino, anche la scultura lignea della Fertilità, che simbolicamente è stata posta in una delle barriccaie ad evocare una feconda e prodiga maturazione, è mobile, su rotelle, per non intralciare le operazioni durante le fasi delle produzione. Anche l’Arte si piega al Vino, non è statica ma semovente per assicurare la massima funzionalità nell’utilizzazione degli spazi.
All’esterno la nostra attenzione è attratta dalla tettoia a sbalzi irregolari, stile bladerunner, caratterizzata da un groviglio caotico e disordinato di longarine ferroviarie. L’insieme sembra davvero meritare il nomignolo che i membri dell’azienda ci confidano di utilizzare per descriverla, ispirati, a quanto pare, dalla dissacrante ironia, tutta maremmana, di un buontempone locale che così chiosava: un disastro ferroviario!
Rientriamo al coperto per l’insistenza della pioggia, non prima di aver espresso tutta la nostra solidarietà al carpentiere per la fatica immane profusa nella messa in opera della bizzaria architettonica, un tale Ceccarelli che ha pensato bene di lasciare con malcelato orgoglio la propria firma su una di quelle longarine accartocciate.
Giungiamo nel salone utilizzato per le degustazioni, dove ci attende Gaia Gaja che ci fa accomodare attorno ad un elegante ed imponente tavolo in vetro nero fumè, contornato da comode poltroncine in cuoio.

Magari 2003

Elegante etichetta optical dalle essenziali e pulite linee geometriche, il cui cromatismo bianco/nero reinterpreta lo stile grafico che ha reso i vini di Gaja immediatamente riconoscibili sugli scaffali delle enoteche di tutto il mondo.Rosso rubino di buona concentrazione e compattezza.Al naso si concede con parsimonia, solo dopo successive olfazioni emergono da un fondo minerale scuro e ferroso note profonde di piccoli frutti a bacca nera. Il morbido ingresso in bocca è ravvivato rapidamente da un’acidità di buon nerbo che si accompagna ad una sapidità già in buona evidenza. Il tannino, pur nella sua giovinezza, è di spessore e buona fattura e si avverte con precisione, dopo la deglutizione e successiva masticazione, tra lingua e palato.
Inizia ad affiorare il timbro bolgherese con la sua inconfondibile mineralità grazie alle viti che ormai hanno iniziato ad andare in profondità, avendo ben sviluppato gli apparati radicali ed ad arricchirsi di tutte le sostanze nutritive necessarie ad esprimere le grandi potenzialità di questo vino.Un vino che nonostante il nome sembra piuttosto ansioso di abbandonare al più presto la forma dubitativa per misurarsi con i grandi nomi della Maremma: il re Sassicaia e i suoi cortigiani Ornellaia e Guado al Tasso.

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