mercoledì 26 agosto 2009
Cohiba Siglo VI, Rhum, Bollicine e Immanuel Kant
Di Tommaso Luongo
Una sera di fine estate rinfrescata da un’esile soffio di maestrale, ed i postumi sonnacchiosi di un’abbondante grigliata (della serie “No Colesterolo, no Party”) accompagnata da un esuberante Cannonau, il Tenores 2005 di Alessandro Dettori sono il miglior viatico per gustare con tutta calma un Cohiba Siglo VI della Linea 1492, ultimo nato della prestigiosa casa habanera. Una vitola decisamente oversize con i suoi 150 mm x 20,64 mm.…le dimensioni richiedono un tempo di fumata di almeno 90 minuti, da affrontare con pazienza e dedizione. Caratteristiche queste che, assieme ad un elevato valore commerciale (siamo sopra i venti euro) ne fanno un sigaro destinato ad occasioni speciali, o che dobbiamo necessariamente far diventare speciali, per goderci in tutto relax questo poderoso cañonazo di Cohiba.
L’analisi a crudo rivela un vestito di un luminoso colorado dai riflessi dorati, una capa tesa ed uniforme dalla perfetta fattura; al naso nuances di fieno e cuoio. Due o tre colpi di Dupont a debita distanza dal piede, ed il braciere incandescente riverbera di luce. Fin dall’esordio il tiraggio è eccellente, la fumata è senza il minimo sforzo e suggerisce un ritmo lento e disteso. Il puff è pieno e soffice allo stesso tempo: una fumosa carezza per il palato che resta per tutto il primo terzo un dolce sussurro di miele ed agrumi. Nella parte centrale gli aromi si intensificano e spostano gradualmente la palette aromatica su tonalità di spezie e di caffelatte confermando un’eccellente armonia della ligada. La cavità orale inizia a scaldarsi…un sorso di corroborante acqua fresca e siamo pronti per sorseggiare un Rhum Agricole La Mauny AOC Martinica. Ambra antico nel bicchiere. Una snasata appena sopra e le narici sono investite da una nota pungente di ananas, un po’ sopra le righe. Con l’aumentare della temperatura si fanno strada banana e frutta secca e subito dopo vaniglia e noce moscata. La texture inizialmente grassa e burrosa diventa a centro bocca improvvisamente spigolosa, ed appare eccessiva la secchezza delle fauci innescata da una pervasiva percezione di legno di quercia. Non sembra un abbinamento particolarmente riuscito…ma forse possiamo ancora rimediare: uno scampolo di Cuvée Prestige Rosè di Ca' del Bosco, che riposava solitario in frigo ci consente “un’inversione ad u” e le papille gustative, rinfrancate dal fine perlage, annuiscono e ringraziano! Possiamo allora continuare ad osservare la perfetta tenuta della cenere, estremamente solida e compatta, ed apprezzare la straordinaria evoluzione aromatica nel finale ricco di spunti terrosi e vegetali. La saliva ha ormai catturato l’intima essenza del Siglo VI e prolunga il piacere della persistenza post-fumata, stimolando interessanti elucubrazioni filosofiche mentre ammiriamo il cielo stellato sopra di noi©…(per la morale dentro di noi aspettiamo di tornare dalle vacanze...) (©copyright Kant)
mercoledì 4 febbraio 2009
Under the (Super)tuscan sun
Le note e le considerazioni a quattro mani che state leggendo, seguono una degustazione alla cieca di nove supertuscan che ho organizzato in collaborazione con la delegazione di Napoli dell’Associazione Italiana Sommeliers. Ho chiesto all’amico Tommaso Luongo, Sommelier Master Class e attuale Delegato di Napoli dell’Ais, di scrivermi delle brevi note e considerazioni che corroborassero le mie. È doverosa una premessa: non ho mai amato questi vini, neanche nel loro periodo d’oro. Sia chiaro, per i vini bomboloni, ipermarmellatosi, iperbarricati e ipertutto, ci sono passato anch’io nel mio percorso di bevitore come tutti, ma con i tagli bordolesi made in Tuscany non ho mai avuto un feeling particolare, a differenza di alcuni sangiovese 100% che, invece, continuano a figurare tra i miei vini preferiti. Mi sono sempre chiesto quale fosse l’idea ispiratrice di questi vini al di là del mero aspetto commerciale: tentare di imitare il modello Bordeaux o attraverso l’utilizzo di vitigni bordolesi, molto facili ad acclimatarsi, raccontare in maniera diversa il terroir toscano?
Beh, ancora oggi ho grandi difficoltà a dare una risposta. Ma prima di continuare, ecco l’elenco dei vini in degustazione: Sassicaia 2000, Tenuta San Guido - Lupicaia 1998, Castello del Terriccio – Guado al Tasso 1998, Antinori – Ornellaia 2000, Tenuta dell’Ornellaia – Giorgio Primo 1997, Fattoria La Massa - Schidione 1995, Iacopo Biondi Santi – Saffredi 1998, Fattoria Le Pupille – Tignanello 2000, Antinori – Tenuta di Trinoro 1998, Tenuta di Trinoro.
Bene, una considerazione iniziale riguarda le annate: alcuni di questi vini sono stati degustati in annate “minori”. Ok, ma i prezzi non erano certo minori, né le valutazioni che hanno ricevuto da guide e riviste oltreoceano e nostrane. Tralascio l’aspetto emozionale che può coinvolgere alcuni di voi che stanno leggendo e allo stesso tempo, indossando la veste giustificazionista non penso neanche lontanamente di voler giudicare una “categoria” di vini solo ed esclusivamente da un singolo assaggio. Anzi, farò di più, tanto per capirci, ci sono annate in cui (vedi ’85 e ’88 per il Sassicaia) alcuni di questi vini hanno dato ottime performance: ma ciò basta affinchè li si elegga come portabandiera del vino made in Italy all’estero?
Da un punto di vista tecnico, questi vini hanno mostrato molto più di un limite: finezza, complessità, eleganza, armonia, bevibilità, erano termini sconosciuti a questi vini. I rappresentanti migliori non sono andati oltre il compitino di vini tecnicamente fatti bene che non raccontavano null’altro, figuriamoci il terroir toscano. Per alcuni l’invecchiamento era precoce, altri erano completamente scomposti al palato o al naso. L’unico capace di elevarsi (non che ci volesse molto) è stato il Tignanello 2000. Ora una domanda: c’è ancora qualcuno di voi, che si chiede perché questi vini rimangono invenduti in buona parte delle cantine dei ristoranti italiani?
L’unico rammarico è stato per il Tenuta di Trinoro che ha avuto un problema di tappo e che, con buone probabilità, per ciò che ha lasciato intravedere si sarebbe classificato primo su tutti.
Ora lascio la parola a Tommaso, segnalando le brevi ma incisive note di Fabio Cimmino che potete leggere qui e quelle un po’ più “democratiche” di Pasquale Brillante che potete leggere qui, sul blog dell’Ais Napoli.
Nota positiva: l’incasso della serata sarà devoluto in beneficenza.
Sui famigerati Super Tuscan, tanto per citare i desaparecidos Jalisse - menzione doverosa visto che il clima sanremesco inevitabilmente si avvicina - sono stati scritti fiumi di parole, e dire qualcosa di originale rischia di essere un’impresa piuttosto ardua…
Portabandiera dell’enologia italiana sui mercati esteri, i Super Tuscan sembrano aver ormai smarrito l’identità tanto da essere descritti, da un po’ di tempo a questa parte, come una sorta di ibridi etilici in odor di de profundis. Le due batterie etiliche evidenziano fin da subito una forte distanza dal prototipo dell’eleganza bordolese che dovrebbe costituire (in questi casi il condizionale è d’obbligo…) il modello di riferimento per i vini di questa tipologia. Il più vicino alla souplesse di ispirazione Peynaudiana è proprio forse il Sassicaia. La ciccia è sicuramente tanta, e si nota per come si adagia flessuoso sul palato, ma poi riesce a sollevarsi con scioltezza grazie ad una buona spinta di freschezza. L’Ornellaia delude per l’eccessivo e pervasivo volume di bocca e per l’essere del tutto privo di qualsiasi forma di tensione gustativa; oltremodo spesso e denso si impantana, non potendo godere di una sufficiente spalla acida per sostenere in modo efficace l’impressionante e muscolare mole estrattiva. Tra i due blasonati litiganti la spunta il Tignanello: timido e reticente, diventa con il passare dei minuti sempre più convincente soprattutto dal punto di vista emozionale.
Ma a parte quest’ultimo, il timbro made in Tuscany con la tradizionale e profonda mineralità ferrosa a far da battistrada alle scure tinte ematiche e terragne finisce per essere per tutti gli altri vini in degustazione solo un timido accenno, mentre la nota dominante parla il linguaggio erbaceo del cabernet immaturo con prepotenti note balsamiche traslate dai piccoli legni di affinamento.
Non giudicabile il Tenuta di Trinoro che, anche se irrimediabilmente segnato “alla distanza” dal sentore di tappo, dimostra una personalità olfattiva non comune tanto da riuscire ad offuscare inizialmente le grevi note sugherose…Che peccato!
Super forse, Tuscan sicuramente no…
Mauro Erro e Tommaso Luongo
Beh, ancora oggi ho grandi difficoltà a dare una risposta. Ma prima di continuare, ecco l’elenco dei vini in degustazione: Sassicaia 2000, Tenuta San Guido - Lupicaia 1998, Castello del Terriccio – Guado al Tasso 1998, Antinori – Ornellaia 2000, Tenuta dell’Ornellaia – Giorgio Primo 1997, Fattoria La Massa - Schidione 1995, Iacopo Biondi Santi – Saffredi 1998, Fattoria Le Pupille – Tignanello 2000, Antinori – Tenuta di Trinoro 1998, Tenuta di Trinoro.
Bene, una considerazione iniziale riguarda le annate: alcuni di questi vini sono stati degustati in annate “minori”. Ok, ma i prezzi non erano certo minori, né le valutazioni che hanno ricevuto da guide e riviste oltreoceano e nostrane. Tralascio l’aspetto emozionale che può coinvolgere alcuni di voi che stanno leggendo e allo stesso tempo, indossando la veste giustificazionista non penso neanche lontanamente di voler giudicare una “categoria” di vini solo ed esclusivamente da un singolo assaggio. Anzi, farò di più, tanto per capirci, ci sono annate in cui (vedi ’85 e ’88 per il Sassicaia) alcuni di questi vini hanno dato ottime performance: ma ciò basta affinchè li si elegga come portabandiera del vino made in Italy all’estero?
Da un punto di vista tecnico, questi vini hanno mostrato molto più di un limite: finezza, complessità, eleganza, armonia, bevibilità, erano termini sconosciuti a questi vini. I rappresentanti migliori non sono andati oltre il compitino di vini tecnicamente fatti bene che non raccontavano null’altro, figuriamoci il terroir toscano. Per alcuni l’invecchiamento era precoce, altri erano completamente scomposti al palato o al naso. L’unico capace di elevarsi (non che ci volesse molto) è stato il Tignanello 2000. Ora una domanda: c’è ancora qualcuno di voi, che si chiede perché questi vini rimangono invenduti in buona parte delle cantine dei ristoranti italiani?
L’unico rammarico è stato per il Tenuta di Trinoro che ha avuto un problema di tappo e che, con buone probabilità, per ciò che ha lasciato intravedere si sarebbe classificato primo su tutti.
Ora lascio la parola a Tommaso, segnalando le brevi ma incisive note di Fabio Cimmino che potete leggere qui e quelle un po’ più “democratiche” di Pasquale Brillante che potete leggere qui, sul blog dell’Ais Napoli.
Nota positiva: l’incasso della serata sarà devoluto in beneficenza.
Sui famigerati Super Tuscan, tanto per citare i desaparecidos Jalisse - menzione doverosa visto che il clima sanremesco inevitabilmente si avvicina - sono stati scritti fiumi di parole, e dire qualcosa di originale rischia di essere un’impresa piuttosto ardua…
Portabandiera dell’enologia italiana sui mercati esteri, i Super Tuscan sembrano aver ormai smarrito l’identità tanto da essere descritti, da un po’ di tempo a questa parte, come una sorta di ibridi etilici in odor di de profundis. Le due batterie etiliche evidenziano fin da subito una forte distanza dal prototipo dell’eleganza bordolese che dovrebbe costituire (in questi casi il condizionale è d’obbligo…) il modello di riferimento per i vini di questa tipologia. Il più vicino alla souplesse di ispirazione Peynaudiana è proprio forse il Sassicaia. La ciccia è sicuramente tanta, e si nota per come si adagia flessuoso sul palato, ma poi riesce a sollevarsi con scioltezza grazie ad una buona spinta di freschezza. L’Ornellaia delude per l’eccessivo e pervasivo volume di bocca e per l’essere del tutto privo di qualsiasi forma di tensione gustativa; oltremodo spesso e denso si impantana, non potendo godere di una sufficiente spalla acida per sostenere in modo efficace l’impressionante e muscolare mole estrattiva. Tra i due blasonati litiganti la spunta il Tignanello: timido e reticente, diventa con il passare dei minuti sempre più convincente soprattutto dal punto di vista emozionale.
Ma a parte quest’ultimo, il timbro made in Tuscany con la tradizionale e profonda mineralità ferrosa a far da battistrada alle scure tinte ematiche e terragne finisce per essere per tutti gli altri vini in degustazione solo un timido accenno, mentre la nota dominante parla il linguaggio erbaceo del cabernet immaturo con prepotenti note balsamiche traslate dai piccoli legni di affinamento.
Non giudicabile il Tenuta di Trinoro che, anche se irrimediabilmente segnato “alla distanza” dal sentore di tappo, dimostra una personalità olfattiva non comune tanto da riuscire ad offuscare inizialmente le grevi note sugherose…Che peccato!
Super forse, Tuscan sicuramente no…
Mauro Erro e Tommaso Luongo
Iscriviti a:
Post (Atom)