mercoledì 26 agosto 2009
Cohiba Siglo VI, Rhum, Bollicine e Immanuel Kant
Di Tommaso Luongo
Una sera di fine estate rinfrescata da un’esile soffio di maestrale, ed i postumi sonnacchiosi di un’abbondante grigliata (della serie “No Colesterolo, no Party”) accompagnata da un esuberante Cannonau, il Tenores 2005 di Alessandro Dettori sono il miglior viatico per gustare con tutta calma un Cohiba Siglo VI della Linea 1492, ultimo nato della prestigiosa casa habanera. Una vitola decisamente oversize con i suoi 150 mm x 20,64 mm.…le dimensioni richiedono un tempo di fumata di almeno 90 minuti, da affrontare con pazienza e dedizione. Caratteristiche queste che, assieme ad un elevato valore commerciale (siamo sopra i venti euro) ne fanno un sigaro destinato ad occasioni speciali, o che dobbiamo necessariamente far diventare speciali, per goderci in tutto relax questo poderoso cañonazo di Cohiba.
L’analisi a crudo rivela un vestito di un luminoso colorado dai riflessi dorati, una capa tesa ed uniforme dalla perfetta fattura; al naso nuances di fieno e cuoio. Due o tre colpi di Dupont a debita distanza dal piede, ed il braciere incandescente riverbera di luce. Fin dall’esordio il tiraggio è eccellente, la fumata è senza il minimo sforzo e suggerisce un ritmo lento e disteso. Il puff è pieno e soffice allo stesso tempo: una fumosa carezza per il palato che resta per tutto il primo terzo un dolce sussurro di miele ed agrumi. Nella parte centrale gli aromi si intensificano e spostano gradualmente la palette aromatica su tonalità di spezie e di caffelatte confermando un’eccellente armonia della ligada. La cavità orale inizia a scaldarsi…un sorso di corroborante acqua fresca e siamo pronti per sorseggiare un Rhum Agricole La Mauny AOC Martinica. Ambra antico nel bicchiere. Una snasata appena sopra e le narici sono investite da una nota pungente di ananas, un po’ sopra le righe. Con l’aumentare della temperatura si fanno strada banana e frutta secca e subito dopo vaniglia e noce moscata. La texture inizialmente grassa e burrosa diventa a centro bocca improvvisamente spigolosa, ed appare eccessiva la secchezza delle fauci innescata da una pervasiva percezione di legno di quercia. Non sembra un abbinamento particolarmente riuscito…ma forse possiamo ancora rimediare: uno scampolo di Cuvée Prestige Rosè di Ca' del Bosco, che riposava solitario in frigo ci consente “un’inversione ad u” e le papille gustative, rinfrancate dal fine perlage, annuiscono e ringraziano! Possiamo allora continuare ad osservare la perfetta tenuta della cenere, estremamente solida e compatta, ed apprezzare la straordinaria evoluzione aromatica nel finale ricco di spunti terrosi e vegetali. La saliva ha ormai catturato l’intima essenza del Siglo VI e prolunga il piacere della persistenza post-fumata, stimolando interessanti elucubrazioni filosofiche mentre ammiriamo il cielo stellato sopra di noi©…(per la morale dentro di noi aspettiamo di tornare dalle vacanze...) (©copyright Kant)
mercoledì 4 febbraio 2009
Under the (Super)tuscan sun
Le note e le considerazioni a quattro mani che state leggendo, seguono una degustazione alla cieca di nove supertuscan che ho organizzato in collaborazione con la delegazione di Napoli dell’Associazione Italiana Sommeliers. Ho chiesto all’amico Tommaso Luongo, Sommelier Master Class e attuale Delegato di Napoli dell’Ais, di scrivermi delle brevi note e considerazioni che corroborassero le mie. È doverosa una premessa: non ho mai amato questi vini, neanche nel loro periodo d’oro. Sia chiaro, per i vini bomboloni, ipermarmellatosi, iperbarricati e ipertutto, ci sono passato anch’io nel mio percorso di bevitore come tutti, ma con i tagli bordolesi made in Tuscany non ho mai avuto un feeling particolare, a differenza di alcuni sangiovese 100% che, invece, continuano a figurare tra i miei vini preferiti. Mi sono sempre chiesto quale fosse l’idea ispiratrice di questi vini al di là del mero aspetto commerciale: tentare di imitare il modello Bordeaux o attraverso l’utilizzo di vitigni bordolesi, molto facili ad acclimatarsi, raccontare in maniera diversa il terroir toscano?
Beh, ancora oggi ho grandi difficoltà a dare una risposta. Ma prima di continuare, ecco l’elenco dei vini in degustazione: Sassicaia 2000, Tenuta San Guido - Lupicaia 1998, Castello del Terriccio – Guado al Tasso 1998, Antinori – Ornellaia 2000, Tenuta dell’Ornellaia – Giorgio Primo 1997, Fattoria La Massa - Schidione 1995, Iacopo Biondi Santi – Saffredi 1998, Fattoria Le Pupille – Tignanello 2000, Antinori – Tenuta di Trinoro 1998, Tenuta di Trinoro.
Bene, una considerazione iniziale riguarda le annate: alcuni di questi vini sono stati degustati in annate “minori”. Ok, ma i prezzi non erano certo minori, né le valutazioni che hanno ricevuto da guide e riviste oltreoceano e nostrane. Tralascio l’aspetto emozionale che può coinvolgere alcuni di voi che stanno leggendo e allo stesso tempo, indossando la veste giustificazionista non penso neanche lontanamente di voler giudicare una “categoria” di vini solo ed esclusivamente da un singolo assaggio. Anzi, farò di più, tanto per capirci, ci sono annate in cui (vedi ’85 e ’88 per il Sassicaia) alcuni di questi vini hanno dato ottime performance: ma ciò basta affinchè li si elegga come portabandiera del vino made in Italy all’estero?
Da un punto di vista tecnico, questi vini hanno mostrato molto più di un limite: finezza, complessità, eleganza, armonia, bevibilità, erano termini sconosciuti a questi vini. I rappresentanti migliori non sono andati oltre il compitino di vini tecnicamente fatti bene che non raccontavano null’altro, figuriamoci il terroir toscano. Per alcuni l’invecchiamento era precoce, altri erano completamente scomposti al palato o al naso. L’unico capace di elevarsi (non che ci volesse molto) è stato il Tignanello 2000. Ora una domanda: c’è ancora qualcuno di voi, che si chiede perché questi vini rimangono invenduti in buona parte delle cantine dei ristoranti italiani?
L’unico rammarico è stato per il Tenuta di Trinoro che ha avuto un problema di tappo e che, con buone probabilità, per ciò che ha lasciato intravedere si sarebbe classificato primo su tutti.
Ora lascio la parola a Tommaso, segnalando le brevi ma incisive note di Fabio Cimmino che potete leggere qui e quelle un po’ più “democratiche” di Pasquale Brillante che potete leggere qui, sul blog dell’Ais Napoli.
Nota positiva: l’incasso della serata sarà devoluto in beneficenza.
Sui famigerati Super Tuscan, tanto per citare i desaparecidos Jalisse - menzione doverosa visto che il clima sanremesco inevitabilmente si avvicina - sono stati scritti fiumi di parole, e dire qualcosa di originale rischia di essere un’impresa piuttosto ardua…
Portabandiera dell’enologia italiana sui mercati esteri, i Super Tuscan sembrano aver ormai smarrito l’identità tanto da essere descritti, da un po’ di tempo a questa parte, come una sorta di ibridi etilici in odor di de profundis. Le due batterie etiliche evidenziano fin da subito una forte distanza dal prototipo dell’eleganza bordolese che dovrebbe costituire (in questi casi il condizionale è d’obbligo…) il modello di riferimento per i vini di questa tipologia. Il più vicino alla souplesse di ispirazione Peynaudiana è proprio forse il Sassicaia. La ciccia è sicuramente tanta, e si nota per come si adagia flessuoso sul palato, ma poi riesce a sollevarsi con scioltezza grazie ad una buona spinta di freschezza. L’Ornellaia delude per l’eccessivo e pervasivo volume di bocca e per l’essere del tutto privo di qualsiasi forma di tensione gustativa; oltremodo spesso e denso si impantana, non potendo godere di una sufficiente spalla acida per sostenere in modo efficace l’impressionante e muscolare mole estrattiva. Tra i due blasonati litiganti la spunta il Tignanello: timido e reticente, diventa con il passare dei minuti sempre più convincente soprattutto dal punto di vista emozionale.
Ma a parte quest’ultimo, il timbro made in Tuscany con la tradizionale e profonda mineralità ferrosa a far da battistrada alle scure tinte ematiche e terragne finisce per essere per tutti gli altri vini in degustazione solo un timido accenno, mentre la nota dominante parla il linguaggio erbaceo del cabernet immaturo con prepotenti note balsamiche traslate dai piccoli legni di affinamento.
Non giudicabile il Tenuta di Trinoro che, anche se irrimediabilmente segnato “alla distanza” dal sentore di tappo, dimostra una personalità olfattiva non comune tanto da riuscire ad offuscare inizialmente le grevi note sugherose…Che peccato!
Super forse, Tuscan sicuramente no…
Mauro Erro e Tommaso Luongo
Beh, ancora oggi ho grandi difficoltà a dare una risposta. Ma prima di continuare, ecco l’elenco dei vini in degustazione: Sassicaia 2000, Tenuta San Guido - Lupicaia 1998, Castello del Terriccio – Guado al Tasso 1998, Antinori – Ornellaia 2000, Tenuta dell’Ornellaia – Giorgio Primo 1997, Fattoria La Massa - Schidione 1995, Iacopo Biondi Santi – Saffredi 1998, Fattoria Le Pupille – Tignanello 2000, Antinori – Tenuta di Trinoro 1998, Tenuta di Trinoro.
Bene, una considerazione iniziale riguarda le annate: alcuni di questi vini sono stati degustati in annate “minori”. Ok, ma i prezzi non erano certo minori, né le valutazioni che hanno ricevuto da guide e riviste oltreoceano e nostrane. Tralascio l’aspetto emozionale che può coinvolgere alcuni di voi che stanno leggendo e allo stesso tempo, indossando la veste giustificazionista non penso neanche lontanamente di voler giudicare una “categoria” di vini solo ed esclusivamente da un singolo assaggio. Anzi, farò di più, tanto per capirci, ci sono annate in cui (vedi ’85 e ’88 per il Sassicaia) alcuni di questi vini hanno dato ottime performance: ma ciò basta affinchè li si elegga come portabandiera del vino made in Italy all’estero?
Da un punto di vista tecnico, questi vini hanno mostrato molto più di un limite: finezza, complessità, eleganza, armonia, bevibilità, erano termini sconosciuti a questi vini. I rappresentanti migliori non sono andati oltre il compitino di vini tecnicamente fatti bene che non raccontavano null’altro, figuriamoci il terroir toscano. Per alcuni l’invecchiamento era precoce, altri erano completamente scomposti al palato o al naso. L’unico capace di elevarsi (non che ci volesse molto) è stato il Tignanello 2000. Ora una domanda: c’è ancora qualcuno di voi, che si chiede perché questi vini rimangono invenduti in buona parte delle cantine dei ristoranti italiani?
L’unico rammarico è stato per il Tenuta di Trinoro che ha avuto un problema di tappo e che, con buone probabilità, per ciò che ha lasciato intravedere si sarebbe classificato primo su tutti.
Ora lascio la parola a Tommaso, segnalando le brevi ma incisive note di Fabio Cimmino che potete leggere qui e quelle un po’ più “democratiche” di Pasquale Brillante che potete leggere qui, sul blog dell’Ais Napoli.
Nota positiva: l’incasso della serata sarà devoluto in beneficenza.
Sui famigerati Super Tuscan, tanto per citare i desaparecidos Jalisse - menzione doverosa visto che il clima sanremesco inevitabilmente si avvicina - sono stati scritti fiumi di parole, e dire qualcosa di originale rischia di essere un’impresa piuttosto ardua…
Portabandiera dell’enologia italiana sui mercati esteri, i Super Tuscan sembrano aver ormai smarrito l’identità tanto da essere descritti, da un po’ di tempo a questa parte, come una sorta di ibridi etilici in odor di de profundis. Le due batterie etiliche evidenziano fin da subito una forte distanza dal prototipo dell’eleganza bordolese che dovrebbe costituire (in questi casi il condizionale è d’obbligo…) il modello di riferimento per i vini di questa tipologia. Il più vicino alla souplesse di ispirazione Peynaudiana è proprio forse il Sassicaia. La ciccia è sicuramente tanta, e si nota per come si adagia flessuoso sul palato, ma poi riesce a sollevarsi con scioltezza grazie ad una buona spinta di freschezza. L’Ornellaia delude per l’eccessivo e pervasivo volume di bocca e per l’essere del tutto privo di qualsiasi forma di tensione gustativa; oltremodo spesso e denso si impantana, non potendo godere di una sufficiente spalla acida per sostenere in modo efficace l’impressionante e muscolare mole estrattiva. Tra i due blasonati litiganti la spunta il Tignanello: timido e reticente, diventa con il passare dei minuti sempre più convincente soprattutto dal punto di vista emozionale.
Ma a parte quest’ultimo, il timbro made in Tuscany con la tradizionale e profonda mineralità ferrosa a far da battistrada alle scure tinte ematiche e terragne finisce per essere per tutti gli altri vini in degustazione solo un timido accenno, mentre la nota dominante parla il linguaggio erbaceo del cabernet immaturo con prepotenti note balsamiche traslate dai piccoli legni di affinamento.
Non giudicabile il Tenuta di Trinoro che, anche se irrimediabilmente segnato “alla distanza” dal sentore di tappo, dimostra una personalità olfattiva non comune tanto da riuscire ad offuscare inizialmente le grevi note sugherose…Che peccato!
Super forse, Tuscan sicuramente no…
Mauro Erro e Tommaso Luongo
venerdì 12 dicembre 2008
Barolo Cappellano Otin Fiorin Rupestris 1998
Inorridiranno i “barolisti dell’Enolaboratorio”…ma stavolta faccio coming out: sono rimasto colpito dalla gradevolezza tuttifrutti del 1998. Innanzitutto una splendida veste color granato screziata da nobili trasparenze. Poi una ricca ciliegia dal nitore esemplare, turgida e matura allo stesso tempo, direi perfino laccata…ed infine bacche di more e lampone avvolte da una misurata nuvola di canfora. Insomma un naso dominato da eleganti(!) timbri fruttati, quasi sfacciato, assai lontano dalle austerità del tradizionale scrigno olfattivo nebbiolesco; qui, senza bisogno di alcuna segreta combinazione, si concedeva alle nostre narici con disarmante facilità ed immediatezza senza la benché minima forma di corteggiamento preliminare. In bocca il tannino soffice e dalla trama fitta e vellutata accarezzava con garbo il palato rendendo estremamente rilassata la beva senza perdere in agilità e in tensione grazie ad una sostenuta acidità.
Non aveva i canini affilati e graffianti di un mordace Barolo, made in Serralunga, ma piuttosto le movenze sinuose e femminee di un La Morra ed è forse è la testimonianza più autentica di quanto sia poco attendibile la tradizione orale langarola, assai lontana dalla puntuale e precisa classificazione dei crus di Borgogna (e non me ne vogliano i sacri testi…). L’atmosfera natalizia ha impedito che venisse lanciato il guanto di sfida per difendere l’onore del 1998, accusato dai “barolisti delusi” di vestire il suo profilo olfattivo di una frutta fin troppo dolce, stucchevole…se non cotta! Ho sentito gridare quasi al sacrilegio olfattivo per un Barolo che nello stile, duro e puro, di Cappellano avrebbe dovuto essere sicuramente più cattivo…
Stavolta manifesto il mio aperto dissenso e voto in modo palese per questo Barolo 1998 sicuramente sui generis, easy se vogliamo, ma estremamente godibile nella sua intima semplicità e che ho apprezzato per la sua naturalezza intuitiva, non cerebrale, senza quei rompicapi olfattivi di cui tanto ci piace(ed anche a me, beninteso…)discutere nelle nostre singolar tenzoni all’Enolaboratorio.
Poi un ringraziamento a Michela per l’inaspettato cadeaux natalizio che spero possa contribuire a risolvere i mille interrogativi che abitualmente ci poniamo e che non trovano ancora risposta.In ultimo, un disinteressato spot pubblicitario: stato influenzale incipiente, raffreddore incattivito da alcuni giorni che stenta ad esaurirsi nonostante le terapie a base di medicine convenzionali…Un sorso di delizioso e corroborante Barolo Chinato restituisce alla vita! Da comprare a casse…Chi beve Barolo chinato Cappellano campa cent’anni! Meditate gente, meditate…
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venerdì 12 settembre 2008
Degustazione “napoletana” tra amici.
Di Luigi Metropoli (su gentile concessione)
Divertirsi degustando e spiando le etichette solo dopo aver immaginato le più improbabili denominazioni e i più improbabili vitigni.
Nella mia settimana “meridionale” spunta la degustazione più assurda degli ultimi tempi. Fabio aveva scommesso metà della propria cantina a chi avesse indovinato il Blaterle, vitigno che fino a ieri sera non solo mi era ignoto all’assaggio, ma ne ignoravo persino l’esistenza. Ovviamente su 6 partecipanti alla bizzarra degustazione nessuno si è avvicinato. Io pensavo al sylvaner, ma evidentemente ne era un parente più o meno lontano.
L’idea era quella di verificare la tenuta di alcune bottiglie d’antan non del tutto adatte all’invecchiamento. In mezzo, qualche sorpresa, come lo splendido extra brut riserva di Stocker 2000, 60 mesi sui lieviti, il Weiss Terlaner dello stesso produttore e appunto il carneade di turno, il Blaterle.
L’Extra Brut, paglierino vivo al colore, ha un naso estremamente complesso, molto al di là dello stancante sentore lievitoso, e bocca molto vivace, fresca, pulita, lunga. Io, che non amo particolarmente le bollicine, sono capitolato sotto questa bandiera altoatesina.
Poi si parte con le bottiglie coperte.
Il primo è un bianco. Colore giallo paglierino intenso con riflessi dorati. Naso piuttosto ridotto e appena burroso. Bocca scomposta e un po’ decaduta. Impossibile risalire al vitigno. Scopriamo le carte: è il Soave classico di Pieropan, della vendemmia 1997.
Per spezzare, si va verso un bianco giovane, il Weiss Terlaner 2006 di Stocker, (da un uva autoctona non meglio specificata), bello limpido in un paglierino tenue. Naso molto fresco che varia tra menta e canfora, con affioramenti di erbe aromatiche. In bocca è un vino piuttosto diretto, teso, bella spalla acida che tiene vivo il sorso. Mi piace particolarmente: si beve con molta facilità, senza tuttavia rinunciare alla complessità. È infatti piuttosto articolato, scalpitante. Niente affatto banale. Poi è la volta dello sconosciuto Blaterle 2006 di Eberlehof. Naso finemente aromatico, tendente più al selvatico che al minerale, che rivela immediatamente il suo carattere nordico per i sentori di erbe di montagna. In bocca è schietto, sottile, con una buona mineralità, piuttosto marcata. Sembra un fratello minore del riesling.
A questo punto si chiude con i bianchi e si parte coi rossi. Tutti rigorosamente con bottiglie coperte.
Il primo, dal colore granato appena un po’ scarico e mediamente compatto, ha un impatto spaesante: per me ci sono note di peperoni verdi che riconducono ai cabernet. Per Tommaso si tratta piuttosto di un sentore vagamente affumicato. Tuttavia il naso è caldo e affascinante. La bocca è appena smagrita, pur dimostrando una buona tenuta e rivelandosi ancora abbastanza vivace. Chiude appena corto. Nessuno ha indovinato la provenienza o meglio: nessuno ci ha provato. Era un Castel del Monte rosso del 1987 della celebre azienda pugliese Rivera.
È la volta di un altro campione d’antan: colore granato abbastanza compatto, naso con accenni di liquirizia, elegante, complesso, abbastanza caldo (non tanto caldo da farlo assomigliare ad un vino del Sud: e infatti i presenti si sono divisi su questo punto). In bocca non riesce del tutto a mantenere le promesse che il naso generosamente aveva concesso (come l’80% dei vini sentiti). Pur mantenendosi integro e tutto sommato piacevole e vivace, perdeva la complessità annunciata, mostrando un palato più esile. Sorpresa generale nel leggere l’etichetta: trattatasi di un Bardolino di Bertani del ’94. Stando così le cose, essendo un vino senza la minima pretesa d’invecchiamento, giù il cappello per la prodigiosa tenuta di 14 anni.
La bottiglia successiva ha un bel colore granato compatto, limpido e trasparente, naso molto preciso, che varia tra accenni minerali (idrocarburi) e un frutto rosso ancora vivo. Poi un corredo complesso di erbe aromatiche, china, rabarbaro. La bocca incredibilmente corrispondente e lunga, senza sbavature, appena un po’ verde. Mi sono fatta un’idea del possibile vino. Per me è un pinot nero. E una volta tanto ci prendo. Trattasi del Blauburgunder di Hoffstatter, senza annata. Molto probabilmente siamo di fronte ad un campione di una ventina d’anni. Di sicuro il vino più performante.
A seguire c’è un vino dal granato compatto, piuttosto fitto. Naso cioccolatoso e di cuoio, con qualche accenno ancora di frutta matura, che assomiglia ad una prugna. È un “vinone” che ha anche un bonus di finezza. Quasi tutti hanno creduto si trattasse di un vino meridionale (molti di noi hanno pensato alla Puglia, per un vino alla cui composizione poteva concorrere anche l’aglianico in percentuale, a donargli quel pizzico di eleganza). In bocca però non ha la complessità che ci si aspettava e la possibilità aglianico svanisce. Tiene comunque bene e si difende, risultando molto bevibile a dispetto della potenza prima mostrata. Ad ogni modo abbiamo sbagliato tutto. Era un vino del Nord, molto a Nord. Un bel Lagrein di Gries del ’93.
L’ultimo vino coperto è forse il più deludente (Mauro ne conviene). Colore in linea con i precedenti, mentre il naso è poco intenso e la bocca un po’ corta, sebbene integra e solida. Trattasi di un Rosso del Carso (forse a base merlot) del ’91 di Castelvecchio.
Dopo il dolce sorseggiamo un po’ di Malvasia di Bosa, il “Licoro” di Zarrelli. Colore giallo intenso che vira verso il dorato, con riflessi di oro antico. Naso estremamente verticale, tutto improntato su sentori agrumati che muovono dal fascino caldo del bergamotto fino all’esotico lime. In bocca c’è quel piacevolissimo gioco a rimpiattino tra la tendenza dolce e un carattere secco, quasi austero e rigoroso. I ritorni odorosi sono in linea con quelli percepiti all’olfatto. Più che sapido è un vino che poggia sostanzialmente sull’acidità, molto spiccata e rinfrescante. Un tripudio di agrumi. Vino nello stesso tempo semplice nella beva per la sua spiccata nota agrumata, ma piuttosto articolato e dotato di gran progressione al palato. Molto distante dai tratti ossidativi che caratterizzano altri campioni della tipologia.
Serata piacevole e spericolata, all’insegna dell’allegria e del disimpegno (una volta tanto…). Quando i discorsi esulavano da argomenti enogastronomici, si parlava del Napoli calcio. Eh, oh!
Extra Brut Riserva Stocker 2000
Soave Classico Pieropan ‘97
Weiss Terlaner Stoker 2006
Blaterle Eberlehof 2006
Castel del Monte Rivera ‘87
Bardolino Bertani ‘94
Hofstatter Baluburgunder s.a.
Lagrein Gries ‘93
Rosso del Carso Castelvecchio ‘91
Malvasia di Bosa “Licoro” Zarrelli 2004
Divertirsi degustando e spiando le etichette solo dopo aver immaginato le più improbabili denominazioni e i più improbabili vitigni.
Nella mia settimana “meridionale” spunta la degustazione più assurda degli ultimi tempi. Fabio aveva scommesso metà della propria cantina a chi avesse indovinato il Blaterle, vitigno che fino a ieri sera non solo mi era ignoto all’assaggio, ma ne ignoravo persino l’esistenza. Ovviamente su 6 partecipanti alla bizzarra degustazione nessuno si è avvicinato. Io pensavo al sylvaner, ma evidentemente ne era un parente più o meno lontano.
L’idea era quella di verificare la tenuta di alcune bottiglie d’antan non del tutto adatte all’invecchiamento. In mezzo, qualche sorpresa, come lo splendido extra brut riserva di Stocker 2000, 60 mesi sui lieviti, il Weiss Terlaner dello stesso produttore e appunto il carneade di turno, il Blaterle.
L’Extra Brut, paglierino vivo al colore, ha un naso estremamente complesso, molto al di là dello stancante sentore lievitoso, e bocca molto vivace, fresca, pulita, lunga. Io, che non amo particolarmente le bollicine, sono capitolato sotto questa bandiera altoatesina.
Poi si parte con le bottiglie coperte.
Il primo è un bianco. Colore giallo paglierino intenso con riflessi dorati. Naso piuttosto ridotto e appena burroso. Bocca scomposta e un po’ decaduta. Impossibile risalire al vitigno. Scopriamo le carte: è il Soave classico di Pieropan, della vendemmia 1997.
Per spezzare, si va verso un bianco giovane, il Weiss Terlaner 2006 di Stocker, (da un uva autoctona non meglio specificata), bello limpido in un paglierino tenue. Naso molto fresco che varia tra menta e canfora, con affioramenti di erbe aromatiche. In bocca è un vino piuttosto diretto, teso, bella spalla acida che tiene vivo il sorso. Mi piace particolarmente: si beve con molta facilità, senza tuttavia rinunciare alla complessità. È infatti piuttosto articolato, scalpitante. Niente affatto banale. Poi è la volta dello sconosciuto Blaterle 2006 di Eberlehof. Naso finemente aromatico, tendente più al selvatico che al minerale, che rivela immediatamente il suo carattere nordico per i sentori di erbe di montagna. In bocca è schietto, sottile, con una buona mineralità, piuttosto marcata. Sembra un fratello minore del riesling.
A questo punto si chiude con i bianchi e si parte coi rossi. Tutti rigorosamente con bottiglie coperte.
Il primo, dal colore granato appena un po’ scarico e mediamente compatto, ha un impatto spaesante: per me ci sono note di peperoni verdi che riconducono ai cabernet. Per Tommaso si tratta piuttosto di un sentore vagamente affumicato. Tuttavia il naso è caldo e affascinante. La bocca è appena smagrita, pur dimostrando una buona tenuta e rivelandosi ancora abbastanza vivace. Chiude appena corto. Nessuno ha indovinato la provenienza o meglio: nessuno ci ha provato. Era un Castel del Monte rosso del 1987 della celebre azienda pugliese Rivera.
È la volta di un altro campione d’antan: colore granato abbastanza compatto, naso con accenni di liquirizia, elegante, complesso, abbastanza caldo (non tanto caldo da farlo assomigliare ad un vino del Sud: e infatti i presenti si sono divisi su questo punto). In bocca non riesce del tutto a mantenere le promesse che il naso generosamente aveva concesso (come l’80% dei vini sentiti). Pur mantenendosi integro e tutto sommato piacevole e vivace, perdeva la complessità annunciata, mostrando un palato più esile. Sorpresa generale nel leggere l’etichetta: trattatasi di un Bardolino di Bertani del ’94. Stando così le cose, essendo un vino senza la minima pretesa d’invecchiamento, giù il cappello per la prodigiosa tenuta di 14 anni.
La bottiglia successiva ha un bel colore granato compatto, limpido e trasparente, naso molto preciso, che varia tra accenni minerali (idrocarburi) e un frutto rosso ancora vivo. Poi un corredo complesso di erbe aromatiche, china, rabarbaro. La bocca incredibilmente corrispondente e lunga, senza sbavature, appena un po’ verde. Mi sono fatta un’idea del possibile vino. Per me è un pinot nero. E una volta tanto ci prendo. Trattasi del Blauburgunder di Hoffstatter, senza annata. Molto probabilmente siamo di fronte ad un campione di una ventina d’anni. Di sicuro il vino più performante.
A seguire c’è un vino dal granato compatto, piuttosto fitto. Naso cioccolatoso e di cuoio, con qualche accenno ancora di frutta matura, che assomiglia ad una prugna. È un “vinone” che ha anche un bonus di finezza. Quasi tutti hanno creduto si trattasse di un vino meridionale (molti di noi hanno pensato alla Puglia, per un vino alla cui composizione poteva concorrere anche l’aglianico in percentuale, a donargli quel pizzico di eleganza). In bocca però non ha la complessità che ci si aspettava e la possibilità aglianico svanisce. Tiene comunque bene e si difende, risultando molto bevibile a dispetto della potenza prima mostrata. Ad ogni modo abbiamo sbagliato tutto. Era un vino del Nord, molto a Nord. Un bel Lagrein di Gries del ’93.
L’ultimo vino coperto è forse il più deludente (Mauro ne conviene). Colore in linea con i precedenti, mentre il naso è poco intenso e la bocca un po’ corta, sebbene integra e solida. Trattasi di un Rosso del Carso (forse a base merlot) del ’91 di Castelvecchio.
Dopo il dolce sorseggiamo un po’ di Malvasia di Bosa, il “Licoro” di Zarrelli. Colore giallo intenso che vira verso il dorato, con riflessi di oro antico. Naso estremamente verticale, tutto improntato su sentori agrumati che muovono dal fascino caldo del bergamotto fino all’esotico lime. In bocca c’è quel piacevolissimo gioco a rimpiattino tra la tendenza dolce e un carattere secco, quasi austero e rigoroso. I ritorni odorosi sono in linea con quelli percepiti all’olfatto. Più che sapido è un vino che poggia sostanzialmente sull’acidità, molto spiccata e rinfrescante. Un tripudio di agrumi. Vino nello stesso tempo semplice nella beva per la sua spiccata nota agrumata, ma piuttosto articolato e dotato di gran progressione al palato. Molto distante dai tratti ossidativi che caratterizzano altri campioni della tipologia.
Serata piacevole e spericolata, all’insegna dell’allegria e del disimpegno (una volta tanto…). Quando i discorsi esulavano da argomenti enogastronomici, si parlava del Napoli calcio. Eh, oh!
martedì 9 settembre 2008
Sardegna...non solo Briatore!
Sardinia… una terra sferzata dalle raffiche violente del mistral, il vento più amato dal popolo dei surfisti ma un pò meno dagli altri frequentatori delle splendide spiagge sarde, soprattutto quando si esibisce in tutta la sua esuberante possenza sradicando senza pietà gli ombrelloni che erano stati faticosamente trivellati tra le dune di sabbia. La Gallura è da vent’anni l’immancabile appuntamento delle mie vacanze estive ed ormai, dopo aver saccheggiato svariate enoteche e cantine attentando al patrimonio familiare, posso affermare di aver approfondito con sufficiente ampiezza il lato etilico di un’isola da un pò di tempo identificata purtroppo negli eccessi “vippaioli” del Billionaire, che guadagnano con il loro sfarzo strombazzato le prime pagine degli ameni rotocalchi estivi e non solo…(leggi qui) Lo stile “cafonal chic” del Flavio e dei suoi sbiaditi epigoni non deve infatti far dimenticare la ricchezza di un’isola che ha saputo conservare tradizioni antiche e pregiati giacimenti gastronomici. Dal nostro punto di vista (tranquilli, è sempre un blog che parla di vino…) la Sardegna per ricchezza varietale e livello qualitativo è oggi assai vicina a regioni di più consolidata tradizione vitivinicola, grazie ai molteplici terroirs di straordinaria varietà geologica che assieme alla variabilità pedoclimatica esaltano magnificamente il ricco patrimonio ampelografico. Non è un caso che i terreni di disfacimento granitico della Gallura, dominati dal fresco e secco maestrale, siano diventati il regno del Vermentino, e gli scisti ed i venti del quadrante orientale abbiano fatto dell’Ogliastra la madre del Cannonau, così come le sabbie dell’isola di Sant’Antioco nel Sulcis hanno valorizzato come in nessun’altra parte del mondo il Carignano e la bassa Valle del Tirso ha saputo custodire gelosamente da secoli la flor, misteriosa genitrice della Vernaccia di Oristano, tanto per fare qualche esempio… L’elenco potrebbe continuare ancora per molto ma preferisco fermarmi qui. Un’isola che merita di essere vissuta a 360 gradi, godendosi sia le mille trasparenze del suo mare che la natura incontaminata delle sue più intime zone interne: quelle che scopri solo se ti metti in macchina in compagnia del TomTom dribblando gli agriturismi (poco agri e molto turismi!) dal porceddu facile made in Denmark, ed i paesi-non-paesi, modello Disneyland, della patinata Costa Smeralda… poi, d’improvviso, curva dopo curva, stazzu dopo stazzu, ti ritrovi a tu per tu con l’anima più rude e selvaggia e certamente più autentica della Sardegna, quella che percepisci immediatamente quando metti piede in questa terra e vieni avvolto dai mille profumi della macchia mediterranea arsa dal solleone, ed in un attimo ti senti lontano mille anni luce dalle paillettes di Briatore e della sua corte dei miracoli.
E’ inutile dirvi che in tanti anni di frequentazione etilica della Sardegna tanti sono stati i coup de coeur: dagli arcinoti figli del grande Giacomo Tachis, Turriga & Terre Brune, l’orgoglio dell’enologia sarda, ai vermentini dall’insuperabile rapporto qualità-prezzo come Canayli e Funtanaliras o i fuoriclasse come Capichera, Genesi e Arakena, e ancora la mitica Vernaccia Antico Gregori di Còntini, da pronunciare rigorosamente con l’accento sulla “o”, oppure Josto Miglior il Cannonau di Jerzu. L’elenco anche qui potrebbe essere sterminato ma scelgo di auto-limitarmi ai “vini del cuore” (copyright L.Pignataro) di quest’estate 2008…
Karenzia è un Vermentino Superiore di nome e di fatto…E’ il frutto sapiente delle vigne storiche del Giogantinu con ben quattordici gradi, una vis alcolica che a prima vista potrebbe mettere un pò di soggezione, ma che quando si versa nel bicchiere si offre con un giallo paglia di intensa luminosità e di splendida compattezza, che subito fanno dimenticare l’importante titolo alcolometrico. La macchia mediterranea intrisa di rosmarino e mirto definisce fin dalla prima olfazione i contorni di un naso articolato e complesso; molto espansivo nei profumi, rilascia gradualmente altri forti indizi di appartenenza al terroir gallurese con continui soffi di mineralità salmastra ad arricchire il bagaglio aromatico che si lascia respirare con gratificante soddisfazione… In seconda olfazione sono i riconoscimenti di frutta a polpa bianca e gialla in piena maturazione a dominare la scena. In bocca si diffonde senza incertezze sul palato grazie ad un ingresso possente e disinvolto con la rotondità della glicerina e lo spessore della ricchezza d’estratti, ben sostenute dalla sapidità che con il passare dei secondi si tinge di suggestioni saline amplificate da calde e possenti sferzate alcoliche. Nell’allungo finale in evidenza gli spunti di frutta esotica avvolti da note mellite. A tavola si sposa con l’aragosta di Castelsardo, per un matrimonio di territorio dove trionfano sia l’amore che la convenienza, a “sorpresa” si trova a suo agio anche su succulenti salsicce pepate cucinate alla brace. Un bianco “bidimensionale” nell’abbinamento che conferma quanto sia semplicistica la trita e ritrita e forse un pò troppo manichea equazione dei bianchi sul pesce e delle carni con i rossi. Provare per credere!
Sarà stato il felice abbinamento con delle costate a cardìga (alla griglia) di bovino di Calangianus, ma per il Kanai, Carignano del Sulcis riserva 2003 della Sardus Pater, è stato un trionfo per come si lasciava bere in assoluta scioltezza, incuriosito ho voluto riprovarlo a distanza di qualche giorno stavolta in formato magnum e con “su sirbone” alias il cinghiale, la classica selvaggina da pelo della Sardegna, cotto in umido con olive nere…altro convincente successo.Un vino di grande temperamento che il rovente millesimo non è riuscito ad esasperare, conservando intatta la solare e calda anima mediterranea senza sbavature ed eccessi, il marker inconfondile che si accompagna al Carignano quando viene allevato nelle zone più vocate: dal Languedoc-Roussillon francese ed alla Catalogna iberica fino alla Tunisia passando per l’estremo lembo di Sud-Ovest della Sardegna, il Sulcis, e trovando nell’isola di Sant’Antioco un’enclave in cui vigne ultrasecolari ad alberello regalano il loro frutto migliore crescendo ad un passo dal mare e su piede franco, non avendo mai conosciuto, beate loro, la fillossera grazie alla granulometria di un terreno composto da sabbia bianca minutissima, talmente fine da rendere difficile la costruzione delle gallerie sotterranee con le quali il famigerato afide ama spostarsi da un ceppo all’altro. Nel bicchiere conquista per la sontuosità della beva, ma ancor di più per la capacità di ravvivarsi ad ogni sorso, senza stancare il palato nonostante la sua esuberante e ricca materia. Si concede al naso con generosità grazie ad una incalzante successione di viola passa e di confettura di prugna ancora turgida e vitale, poi sprigiona ciliegie sotto spirito, note speziate di cannella e vaniglia ed in ultimo di una ventata di cuoio e cioccolato. Una trama olfattiva assai intricata dove tutti i profumi, avvolti gli uni agli altri, sono immersi in un elegante fondo balsamico. Potente e caldo appena trova la bocca, svela il suo ampio corpo definito da un tannino dal passo felpato che accarezza con discrezione le papille gustative. Nel lungo finale una marcata sapidità tempera la dolcezza dei rimandi fruttati che affiorano in retrolfazione. Un’ulteriore conferma di come il Carignano appartenga, senza ombra di dubbio, al ristretto novero dei grandi vitigni a bacca rossa del Mediterraneo.
E’ inutile dirvi che in tanti anni di frequentazione etilica della Sardegna tanti sono stati i coup de coeur: dagli arcinoti figli del grande Giacomo Tachis, Turriga & Terre Brune, l’orgoglio dell’enologia sarda, ai vermentini dall’insuperabile rapporto qualità-prezzo come Canayli e Funtanaliras o i fuoriclasse come Capichera, Genesi e Arakena, e ancora la mitica Vernaccia Antico Gregori di Còntini, da pronunciare rigorosamente con l’accento sulla “o”, oppure Josto Miglior il Cannonau di Jerzu. L’elenco anche qui potrebbe essere sterminato ma scelgo di auto-limitarmi ai “vini del cuore” (copyright L.Pignataro) di quest’estate 2008…
Karenzia è un Vermentino Superiore di nome e di fatto…E’ il frutto sapiente delle vigne storiche del Giogantinu con ben quattordici gradi, una vis alcolica che a prima vista potrebbe mettere un pò di soggezione, ma che quando si versa nel bicchiere si offre con un giallo paglia di intensa luminosità e di splendida compattezza, che subito fanno dimenticare l’importante titolo alcolometrico. La macchia mediterranea intrisa di rosmarino e mirto definisce fin dalla prima olfazione i contorni di un naso articolato e complesso; molto espansivo nei profumi, rilascia gradualmente altri forti indizi di appartenenza al terroir gallurese con continui soffi di mineralità salmastra ad arricchire il bagaglio aromatico che si lascia respirare con gratificante soddisfazione… In seconda olfazione sono i riconoscimenti di frutta a polpa bianca e gialla in piena maturazione a dominare la scena. In bocca si diffonde senza incertezze sul palato grazie ad un ingresso possente e disinvolto con la rotondità della glicerina e lo spessore della ricchezza d’estratti, ben sostenute dalla sapidità che con il passare dei secondi si tinge di suggestioni saline amplificate da calde e possenti sferzate alcoliche. Nell’allungo finale in evidenza gli spunti di frutta esotica avvolti da note mellite. A tavola si sposa con l’aragosta di Castelsardo, per un matrimonio di territorio dove trionfano sia l’amore che la convenienza, a “sorpresa” si trova a suo agio anche su succulenti salsicce pepate cucinate alla brace. Un bianco “bidimensionale” nell’abbinamento che conferma quanto sia semplicistica la trita e ritrita e forse un pò troppo manichea equazione dei bianchi sul pesce e delle carni con i rossi. Provare per credere!
Sarà stato il felice abbinamento con delle costate a cardìga (alla griglia) di bovino di Calangianus, ma per il Kanai, Carignano del Sulcis riserva 2003 della Sardus Pater, è stato un trionfo per come si lasciava bere in assoluta scioltezza, incuriosito ho voluto riprovarlo a distanza di qualche giorno stavolta in formato magnum e con “su sirbone” alias il cinghiale, la classica selvaggina da pelo della Sardegna, cotto in umido con olive nere…altro convincente successo.Un vino di grande temperamento che il rovente millesimo non è riuscito ad esasperare, conservando intatta la solare e calda anima mediterranea senza sbavature ed eccessi, il marker inconfondile che si accompagna al Carignano quando viene allevato nelle zone più vocate: dal Languedoc-Roussillon francese ed alla Catalogna iberica fino alla Tunisia passando per l’estremo lembo di Sud-Ovest della Sardegna, il Sulcis, e trovando nell’isola di Sant’Antioco un’enclave in cui vigne ultrasecolari ad alberello regalano il loro frutto migliore crescendo ad un passo dal mare e su piede franco, non avendo mai conosciuto, beate loro, la fillossera grazie alla granulometria di un terreno composto da sabbia bianca minutissima, talmente fine da rendere difficile la costruzione delle gallerie sotterranee con le quali il famigerato afide ama spostarsi da un ceppo all’altro. Nel bicchiere conquista per la sontuosità della beva, ma ancor di più per la capacità di ravvivarsi ad ogni sorso, senza stancare il palato nonostante la sua esuberante e ricca materia. Si concede al naso con generosità grazie ad una incalzante successione di viola passa e di confettura di prugna ancora turgida e vitale, poi sprigiona ciliegie sotto spirito, note speziate di cannella e vaniglia ed in ultimo di una ventata di cuoio e cioccolato. Una trama olfattiva assai intricata dove tutti i profumi, avvolti gli uni agli altri, sono immersi in un elegante fondo balsamico. Potente e caldo appena trova la bocca, svela il suo ampio corpo definito da un tannino dal passo felpato che accarezza con discrezione le papille gustative. Nel lungo finale una marcata sapidità tempera la dolcezza dei rimandi fruttati che affiorano in retrolfazione. Un’ulteriore conferma di come il Carignano appartenga, senza ombra di dubbio, al ristretto novero dei grandi vitigni a bacca rossa del Mediterraneo.
mercoledì 25 giugno 2008
Vacanze romane...Doppia verticale dell’azienda Castello dei Rampolla con Sammarco e d'Alceo
Vacanze Romane...l'occasione era ghiotta, un grande evento targato Bibenda: i cult-wine di Castello dei Rampolla, Sammarco e d'Alceo in una doppia verticale che attraversa alcuni tra i millesimi più rappresentativi di questa storica e prestigiosa azienda di Panzano di Greve in Chianti. I vini, il parterre de roi ( i principi Luca e Maurizia di Napoli Rampolla e l'enologo Giacomo Tachis con Paolo Lauciani a guidare la degustazione) e la simpatica compagnia (Mauro Erro e Luigi Cristiano) mi convincono a sfidare il torrido caldo di questi giorni... L'opportunità, poi, di scambiare un pò di piacevoli chiacchiere con qualche vecchio amico "romano" è la classica ciliegina sulla torta! A proposito, visto che la trasferta nella capitale era giustificata anche da "motivi di lavoro" subito un' anticipazione: nei prossimi mesi ci sarà una disfida a colpi di zuppa di pesce (scuola puteolan-partenopea vs. scuola laziale) in collaborazione con l'amica e "collega" Maria Cristina Ciaffi, Delegata Ais Civitavecchia. Prima però di lasciare lo spazio al puntuale resoconto di Mauro, due parole due, su questa storica doppia verticale. Diciasette vini sono un' impresa decisamente ardua ma il ritmo della degustazione scandito dagli interventi calibrati dei relatori con le incursioni di Tachis il Grande (giù il cappello!) consente di recuperare agevolmente la concentrazione e prestare la giusta e necessaria attenzione, meno male…Ma veniamo ai vini. A farmi preferire la batteria siglata Sammarco (per un'incollatura..n.d.a.) sono gli umori terragni della toscanità più classica: humus, sottobosco, funghi e tabacco che si intrecciano uno nell'altro bicchiere dopo bicchiere. Su tutti svetta, a mio modesto avviso, il superbo 1985 che si presenta in grande spolvero con una veste cromatica di un intenso granato, illuminata da nobili trasparenze e con un naso che mi colpisce per il frutto ancora integro, direi quasi croccante, scolpito da eleganti ed incessanti effluvi balsamici; in bocca l’incedere della parabola gustativa, deciso e fiero ad ogni passo è sospinto da una sorprendente freschezza che si rinnova in continuazione, il raffinato tannino accompagna in lunghezza ed in profondità tutto l’assaggio con un' impronta garbata e carezzevole. Un vero cavallo di razza che galopperà ancora per tanti anni! Per la batteria dei d'Alceo il timbro è quello della “potenza in un guanto di velluto” anche se ho apprezzato il tono più sommesso del 1998 con una silhouette sicuramente più agile e snella ma dalla lunga e sottile persistenza. Mi fermo qui...basta così! Adesso è il turno della maratona “etilica” di Mauro Erro.
Il territorio:
L’azienda di Castello dei Rampolla è ubicata nella splendida Conca d’Oro, un anfiteatro naturale protetta a nord dalla collina di Santa Lucia, che si apre a sud del paese di Panzano nel comune di Greve in Chianti, nel cuore della zona del Chianti Classico. La natura dei terreni della Conca d’Oro, e più propriamente dei vigneti della azienda, è abbastanza eterogenea, ma vede la predominanza di argilla a valle, che permette la trasmissione di sostanza minerali (le note minerali sono una caratteristica sempre presente nei vini provenienti da questo “Grand Cru”), e man mano salendo in altitudine, terreni limosi e Galestro: quest’ultimo favorisce il perfetto drenaggio e la possibilità di un’ottima penetrazione delle radici delle piante.
L’azienda:
L’azienda nasce grazie all’opera di Alceo di Napoli, intorno agli anni ’60. Innamorato dei vini bordolesi, decise di portare le barbatelle nella sua tenuta (quelle del Cabernet provengono da Villa Capezzana, che a sua volta le aveva prese da Chateau Lafite. Verranno innestate su viti di Malvasia, Trebbiano e Ciliegiolo): fu egli il primo con la collaborazione di Giacomo Tachis, l’enologo, a portare insieme gli Antinori il Cabernet Sauvignon in Toscana e l’unico ad introdurre, in gran segreto perché all’epoca vietato, il Petit Verdot. Dopo la morte di Alceo Di Napoli, saranno i figli dal 1994 a riprendere l’azienda e a produrre il Vigna d’Alceo che verrà commercializzato per la prima volta nell’annata 1996. L’azienda possiede 120 ettari, di cui solo 42 vitati e 28 effettivamente produttivi. Dal 1994, l’azienda è a conduzione biodinamica, per cui si utilizzano solo lieviti indigeni per la fermentazione, non si aggiungono enzimi o prodotti coadiuvanti, l’utilizzo dell’anidride solforosa è ridotta al minimo.
I vini:
Il Sammarco (il cui nome ricorda uno dei figli di Alceo, prematuramente scomparso in un incidente in elicottero) ed il Vigna d’Alceo (oggi più semplicemente d'Alceo) sono i vini di punta dell’azienda. Il primo era nato come uvaggio di Cabernet Sauvignon e Sangiovese, anche se mano a mano negli anni la percentuale di Sangiovese è stata ridotta fino ad un 5% attuale, a cui si è aggiunto un’altrettanta percentuale di Merlot. Il Secondo, invece, è un taglio di Cabernet Sauvignon in prevalenza con l’aggiunta di una percentuale (intorno al 20%) di Petit Verdot. Le vigne sono poste tra i 250 e i 300 metri sul livello del mare, hanno un’età media che supera i trent’anni (anche se si sta provvedendo a nuovi innesti) ed una densità per ettaro, per il Sammarco, di 5/6000 ceppi, per l’Alceo, di 10000, oggi ridotti a 8.000, ceppi. La resa, per quest’ultimo, d’uva per pianta, è alquanto significativa: solo 300-500 grammi!
La vinificazione avviene in lamiera smaltata (non inox, in cui, a detta del proprietario Luca di Napoli, i vini rossi non si fermano mai), anche se l’azienda si sta preparando per sostituirli con tini di cemento, un materiale più neutro per preservare la naturalezza del vino. L’affinamento prevede per il Sangiovese botti dalle capacità di 25/30 ettolitri, per il Cabernet Sauvignon, il Petit Verdoit ed il Merlot, barrique di rovere francese di leggera tostatura nuove solo per il 10, 15%.
N.d.a.: La degustazione, tenutasi ieri presso l’Hotel Cavalieri Hilton di Roma a cura di Ais-Bibenda Roma alla presenza dei titolari dell’azienda e dell’enologo Giacomo Tachis, è stata molto affascinante, ma anche molto faticosa (17 vini, non son pochi), quindi mi scuserete per qualche imprecisione. Trattandosi di due vini in verticale, ovviamente, noterete una certa ripetitività dei descrittori organolettici. L’indicazione del colore sarà data solo quando estremamente significativa.
lunedì 2 giugno 2008
Giovin Re di Michele Satta
Verrebbe da dire ”Simposiarchi vicini e lontani giù il cappello, questo qui è un gran vino, punto e a capo! “ Ma andiamo per gradi, partiamo dal colore…
Fin dalla vista colpisce per uno smagliante oro zecchino dai radiosi riflessi che illuminano il cristallo del bicchiere. Straripante è la ricchezza aromatica della finissima trama olfattiva: prima esplodono le note fruttate di albicocca, ananas e pesca gialla; poi è il turno della cannella accompagnata da incenso e miele d’acacia. Intensi e continui sono i profumi che giocano con le nostre narici, nascondendosi uno dietro l’altro: diventa estremamente piacevole immergere il naso nel bicchiere e verificare come il ventaglio aromatico si dispieghi ad ogni olfazione, disegnando una complessità di rara definizione che chiude con un tocco soffuso di crema inglese dal quale emerge con chiara precisione il baccello di vaniglia.
Un corpo estremamente sensuale ed avvolgente, arrotondato da una morbidezza che pervade il palato con un incedere lento e flessuoso sostenuto ad ogni passo da una acidità rimarchevole, che nella dinamica gustativa accompagna il Giovin Re verso l’armonia nonostante l’importante ricchezza in estratti; con il passar del tempo, dopo la deglutizione, dimostra di sapersi vestire anche di sapidità per un interminabile finale di regale eleganza.
Mi lancio, stile “viandante bevitore”, in un abbinamento musicale e mi vien subito da pensare alle evocative atmosfere di Habibi ya nour el di Alabina. Buona danza del ventre…
Tommaso Luongo
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